IL TEMPO DEI PROCESSI E QUELLO DELLA VITA
Il tema del tempo rappresenta, da sempre, una delle riflessioni più affascinanti e misteriose per l’essere umano. Già gli antichi greci distinguevano tra «chronos», il tempo cronologico, lo scorrere del tempo, e «kairos», il tempo degli atti, delle scelte, delle passioni. Il tempo è elemento di parametrazione rispetto a qualsiasi vicenda umana.
Le società moderne considerano il tempo come «bene della vita» e indicatore della qualità di essa. Una risorsa preziosissima, quanto scarsa e non replicabile. A ben vedere, il diritto stesso perderebbe completamente di significato senza la dimensione temporale.
Eppure queste considerazioni, di puro buon senso, vengono contraddette continuamente dalla realtà. Nel nostro ordinamento ne è emblema drammatico la lunghezza dei processi. Il cancro della giustizia che ha portato la Corte di Strasburgo a condannare più volte l’Italia proprio per la violazione della ragionevole durata del processo.
È un sapere condiviso che l’attesa di un evento importante, dagli esiti incerti, come può esserlo la sentenza di un tribunale, è un’esperienza emotivamente delicata. Ogni individuo, nella sua dimensione privata e pubblica, ha bisogno di raggiungere una stabilità e certezza del proprio status e delle proprie relazioni. Ed è ovvio che tanto più si dilatano i tempi dell’attesa processuale, tanto più fragili diventano le difese dell’individuo. Ma, soprattutto, vi è un nodo cruciale: il danno subito per l’attesa è, in qualche misura, quantificabile? Come impatta il tempo trascorso sotto il profilo familiare, biologico, sociale-relazionale, economico, professionale? Come lo si risarcisce?
Domande, purtroppo, senza risposta. Ogni processo reca con sé degli interessi specifici di cui il giudice deve tenere conto nelle modalità di trattazione della causa. È un vero e proprio dovere del giudice, per non negare l’effettività del proprio decidere, commisurare i tempi del proprio intervento e garantire al procedimento una ragionevole durata. Non solo. Occorre valorizzare l’impatto pratico di essa. Di conseguenza il giudice, per quanto può e riesce, deve organizzare il processo in rapporto all’utilità concreta in gioco: una giustizia concessa «a gioco terminato» è, infatti, una giustizia denegata.
La questione oggi sul tappeto è l’attesa processuale della decisione di Strasburgo per il caso di Silvio Berlusconi. Il ricorso è stato presentato il 7 settembre 2013. Da allora sono passati oltre 4 anni. Un tempo lunghissimo. Esso supera, addirittura, la dimensione dell’interesse individuale del cittadino Berlusconi ad una giustizia resa in tempi ragionevoli ed incide su una dimensione più ampia: quella dell’interesse pubblico. Il valore del tempo qui assume natura anche politica, perché coinvolge le prossime elezioni. Sarebbe innaturale, infatti, che una forza politica di primo piano non potesse contare, in caso di accoglimento del ricorso, sulla pienezza delle funzioni del suo leader. Così come sarebbe innaturale che l’Italia fosse costretta, in attesa di una decisione dei giudici di Strasburgo, a trascorrere la competizione elettorale dei prossimi mesi in una sorta di «limbo politico».
Ma qual è il limite temporale ultimo oltre il quale anche una eventuale sentenza favorevole a Berlusconi sarebbe inutile, non potendogli consentire la cosiddetta «agibilità politica»? Se, infatti, una sentenza favorevole arrivasse prima delle elezioni, ma comunque dopo la scadenza del termine per la presentazione delle candidature, non servirebbe a nulla. Potrebbe, ad esempio, Berlusconi, in vista della sentenza presumibilmente a lui favorevole, intanto candidarsi per non perdere dopo la possibilità di farlo? Il ritardo finora accumulato dalla Corte di Strasburgo sta causando una paradossale violazione dei ragionevoli tempi di durata del processo. Paradossale, perché si consuma proprio in relazione ad un Paese, il nostro, ripetutamente condannato proprio da Strasburgo per la violazione della «ragionevole» durata del processo. Ma allora se la lentezza dei processi si ripropone in queste proporzioni anche in Europa, quale speranza possiamo mai avere? Significherebbe che siamo realmente di fronte ad un problema irrisolvibile, ad un sistema condannato alla sua autodistruzione.
Ecco perché è così importante una rapida decisione del ricorso. Le soluzioni tecniche non mancano. A partire dai criteri che la stessa Corte di Strasburgo ha stabilito e che tengono conto dell’importanza e dell’urgenza delle questioni da essi posti. Tra cui, per l’appunto, quello delle «questioni di interesse generale», capaci di determinare «implicazioni sui sistemi giuridici nazionali».
Insomma, gli ingredienti per decidere ci sono tutti. Come dire, è arrivato il «tempo»…