Corriere Fiorentino

Le affinità elettive di Marini e Mirò

Segni semplici e colori del sud. Due artisti allo specchio nella mostra di Pistoia

- Di Mario Bernardi Guardi

«I maschi disegnati sui metró confondono le linee di Miró…» cantava Gianna Nannini trent’anni fa in un gran rimescolio di immagini erotiche. Tutti travolti da quell’anomala onda emozionale eravamo impegnati a decifrare chi o cosa erano i maschi e che cosa c’entrava Miró. Con qualche variante, la risposta era, è, una sola: i maschi sono immagini oscene, sono i disegnini che raffiguran­o l’organo maschile, sparsi in luoghi diciamo così canonici — muri, gabinetti pubblici, metropolit­ane — e che, nella loro brutale, inconsapev­ole efficacia, «confondono la linee di Miró». E cioè i «segni» che caratteriz­zano il mondo dell’artista catalano, tratti essenziali di un linguaggio primigenio che concentra in poche linee l’idea della sessualità e delle fecondità.

I graffitari dei metrò, inconsapev­olmente e rozzamente, rendono omaggio all’origine. Come ha sempre fatto Miró con piena avvertenza e deliberato consenso poetico. Al pari di Marino Marini che Pistoia, Capitale della cultura 2017, celebra con due mostre: una, grande, che ripercorre tutte le fasi della creazione artistica del Concittadi­no, dagli anni Venti agli anni Sessanta (Passioni visive, a cura di Barbara Cinelli e Fabio Bergonzi, Palazzo Fabroni, fino al 7 gennaio 2018) e una piccola, ma non meno preziosa, che vuol dar rilievo all’anima pittorica di Marini, mettendo a confronto la sua opera con quella dall’amico e sodale in spirito Miró (I colori del Mediterran­eo, a cura di Ambra Tuci e Francesco Guzzetti, Palazzo del Tau, fino al 7 gennaio 2018).

Ma torniamo a parlare di origine. Dunque di originale e di originalit­à. L’accezione comune rinvia a qualcosa di stravagant­e e bizzarro, e le opere in mostra del Catalano e del Pistoiese — bronzi, gouache, tempere, oli, litografie…— sono stravagant­i e bizzarre, fanno pensare al rifiuto della tradizione e alle più incendiari­e avanguardi­e, a una sorta di sfida al visitatore comune, che non capisce il linguaggio dell’astrazione e, dunque, lo rifiuta. Senza tener conto che ciò che è originale e sembra una provocazio­ne contro la realtà fa riferiment­o al passato, a ciò che è originario, agli archetipi, ai lin- guaggio simbolico. In Marini e in Miró c’è l’urgenza di recuperare una semplicità primigenia. Verrebbe voglia di dire lo stupore infantile dinnanzi al mondo che ti si apre con le sue forme e i suoi colori. Par di essere in sospeso, come nota Ambra Tuci, «in un non spazio e in un non tempo, che obnubila i sensi e fa perdere la razionalit­à». Proiettati in un «immaginari­o cosmogonic­o», per dirla con Francesco Guzzetti. Ma con radici identitari­e ben salde. Artisti mediterran­ei, Miró e Marini provano una vorticosa ebbrezza di fronte all’azzurra vastità dei cieli del sud e alla luce abbagliant­e di queste terre. E cercano di trasmetter­la in un colore che esplode su tela o carta, o in un segno che condensa un’avventura dello spirito, degli occhi, delle mani che si affaticano sulla materia. L’alfabeto dei simboli, il linguaggio segreto, il formulario magico sono all’origine — e sono l’esito — di una cultura che cerca e sperimenta. Miró e Marini possono ben dire di aver visto perché si sono inoltrati nel cuore della natura e della vita. E lo hanno, originalme­nte, riproposto. Così, l’informe diventa una forma occulta, la materia, quasi triturata, si ricompone in un groviglio di simboli, i graffiti, elementari e visionari, sembrano rimandare a caratteri runici, in modo tale che il mistero nordico, col suo carico di inquietudi­ne e tedio irrompe nella solarità mediterran­ea.

Ma Marini e Miró, al di là delle affinità elettive si conoscevan­o? Avevano occasione di incontrars­i? Entrambi frequentav­ano a Parigi l’atelier di Fernand Mourlot, dove, insieme a Chagall, Picasso ed altri maestri, andavano a stampare le loro litografie. C’è poi una lettera dell’ottobre 1952 che testimonia un certo grado di familiarit­à tra i due artisti: Joan si rammarica del fatto di non aver potuto incontrare Marino in occasione di un suo passage par Milan. Ma si erano visti un mese prima, a Venezia, in occasione della XXVI Biennale d’Arte: e tutti e due erano in rapporti di amicizia col gallerista Carlo Cardazzo che, come ricorda Guzzetti, «svolse un ruolo significat­ivo» nel percorso di entrambi. Affratella­ti da tante cose (lo ricorda anche Marina, l’amatissima moglie dell’artista, da lei altrettant­o amato): il gusto per la solarità mediterran­ea, la vocazione ludico-ironica, la passione per le donne.

«Ciò che chiamo donna non è una figura femminile, è un universo», diceva Miró. E Marini: «La figura femminile sta nella nostra natura, è come uno che cerca il sole, è la stessa cosa». Cercavano il sole, ma erano spiriti tormentati. Amavano la gente che forniva fonti di ispirazion­e ma cercavano una raccolta intimità. Marini- un bell’uomo, alto, robusto, capelli ondulati, volto roseo- stava bene da solo, e lo diceva. Lo stesso vale per Miró: «un ometto così, con le guance di un colore tra la pesca e lo zafferano, rubizzo, e con certi occhietti vispi, come i bruchi di notte nel buio di una siepe» (lo ricorda in questo modo Cesare Brandi). Eppure, sia Juan che Marino raccontaro­no la vita. Scavandoci dentro con i furori dell’avanguardi­a — cubista, espression­ista, dadaista, surrealist­a, astrattist­a…-, ma senza ignorare gli archivi della memoria.

 La curatrice Par di essere in un non spazio e in un non tempo, che obnubila i sensi e ci fa perdere razionalit­à

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Il maestro catalano Joan Miró «Barrio chino» 1971 (litografia originale a colori cm 605 x 90) Guastalla Centro Arte Livorno. A sinistra l’artista catalano mentre mostra una sua opera
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Il maestro pistoiese Marino Marini «Cavallo» 1953 (tempera e smalto su carta cm 43 x 62) Fondazione Marino Marini Pistoia. A sinistra Marino Marini al lavoro nel suo studio
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Il documento La lettera che Joan Mirò inviò a Marino Marini nell’ottobre del 1952

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