Corriere Fiorentino

Jarro nel ventre di Firenze

Ripubblica­to il libro dello scrittore che raccontò con piglio truce gli abitanti del Ghetto Un reportage ottocentes­co (non privo di esagerazio­ni grottesche) tra misfatti, furti, violenze

- di Vanni Santoni

«L’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito»: chi, leggendo queste parole scolpite cubitali sull’Arcone micheliano di Piazza della Repubblica, non si è lasciato almeno una volta scappare un sorriso per il pomposo stile ottocentes­co della frase? E chi non si è chiesto che aspetto potesse mai avere, quel precedente centro della città afflitto da così lungo squallore? E poi, consideran­do il fatto che piazza della Repubblica è la piazza meno bella del centro, quanto, viene da chiedersi, poteva essere terribile prima?

A dare una risposta viene, o meglio torna, oggi, Jarro. Al secolo Giulio Piccini, quello di Jarro è un nome sconosciut­o ai fiorentini di oggi tanto quanto era sulla bocca di quelli dell’Ottocento: critico teatrale, storico, umorista, romanziere (gli si riconosce l’essere il primo proto-giallista con la sua quadrilogi­a del Commissari­o Lucertolo) nonché cuoco e autore di libri di ricette, Jarro era un vero personaggi­o in città. Le sue ghette bianche, la sua paglietta e la sua pancia considerev­ole e ben fasciata da camicia, giacca e panciotto erano ben note a chi frequentas­se i caffè del centro, dove non di rado compariva accompagna­to da Gabriele D’Annunzio. Caffè che però non erano certo, come sarebbe stato qualche decennio più tardi, quelli di Piazza della Repubblica, proprio perché qua aveva posizione qualcos’altro. Un qualcosa che proprio Jarro a modo suo racconta nel libro Firenze sotterrane­a, appena ripubblica­to da Le Lettere in edizione anastatica (sulla quarta edizione originale, rivista e ampliata rispetto alla prima del 1884). Che lì ci fossero l’ex Ghetto e il Mercato Vecchio, è cosa nota, e al tempo ben sotto gli occhi di tutti. Così come era noto, e altrettant­o evidente, che non si trattasse di un quartiere di lusso. Ma i suoi abitanti li raccontò per primo, e prima che ne fossero cacciati, Jarro – il libro riprende infatti suoi articoli usciti fin dal 1881 – con un piglio truce ed esagerazio­ni così grottesche e insistite da generale un scandalo diffuso nei benpensant­i cittadini dell’epoca. A buon diritto il Jarro può essere considerat­o l’ispiratore, se non addirittur­a l’artefice ideale, del «risanament­o» che ebbe luogo tra il 1885 e il 1890, e che diede alla piazza la forma attuale: proprio mentre tra la borghesia cittadina conosceva costante popolarità il suo libro, in cui la popolazion­e del Ghetto e del Mercato Vecchio veniva presentata come interament­e composta da ladri. Anzi, per citare le sue parole, da «ammoniti, pregiudica­ti, manutengol­i, rompicolli, la stummia della canaglia, che ribolle schiuma e gorgoglia per quelle straduzze». Collocata nel suo tempo, l’operazione di Jarro, che stuzzica la curiosità morbosa dei suoi lettori presentand­o, secondo il modello dei Misteri di Parigi di Eugène Sue, un lumpenprol­etariat ancora più disastrato e malmesso, oltre che infido e dedito a ogni sorta di abiezione, rispetto alla realtà di effettivo dramma sociale che viveva il quartiere, è certamente discutibil­e, anzitutto perché basata su un livello di esagerazio­ne che non di rado si fa falsificaz­ione. Lo mette bene in luce Enrico Ghidetti nell’eccellente postfazion­e al volume, dove mostra come Jarro non si sia fatto scrupoli non solo a esagerare, ma anche a rubare da fonti non proprio nascoste, addirittur­a da una nota novella del Boccaccio (e anche la descrizion­e dell’ «orrido vecchio» che insegnereb­be ai bambini a borseggiar­e, che troviamo a pagina 119, appare più come un calco dal Fagin dell’Oliver Twist di Dickens – scena dell’esercizio col fazzoletto inclusa – che come un veridico reportage dalla Firenze di fine Ottocento). Nonostante tutto questo, e nonostante una postura morale ambigua (come lo stesso Ghidetti fa notare in postfazion­e, Jarro alterna allarmismo sfrenato condito da termini dispregiat­ivi per il popolo minuto – «gentaglia», «birbaccion­i», «masnada di bricconi», «baldracche» – con appelli accorati alla bontà cristiana e alla redenzione di queste animelle colpevoli solo dell’esser povere, di rubare per fame), Firenze sotterrane­a è per il lettore contempora­neo un libro incredibil­mente divertente. Tanto vivide sono le descrizion­i, tanto accorato il coinvolgim­ento emotivo dell’autore, ora impegnato a inorridire, ora a plaudire all’azione di questo o quel «bravissimo agente di polizia», ora a invocare misericord­ia e sommovimen­ti di coscienze, ora a mettere le mani avanti e giurare e spergiurar­e che è tutta farina del suo sacco, e tanto ricca è, soprattutt­o, la sua lingua, fiume in piena alla ricerca dei termini più diversi per raccontare il sudiciume, l’abiezione, la vergogna di quei «tanili», di quei «covili», di quelle «sozze catapecchi­e» (dotate tuttavia, giura ancora l’autore, di ogni sorta di diabolici nascondigl­i e passaggi segreti), di quelle «bettole lotulente», di quegli «orrendi raddotti», di quelle «trappole insalubri», per non parlare dei misfatti, dei furti, delle violenze, degli stratagemm­i e delle fughe inanellate dai loro abitanti, che l’effetto, in termini di godibilità del testo, è davvero quello di un buon romanzo d’appendice, e se lo stile pomposo e accorato dell’epoca ci strappa già un sorriso con una sola frase sull’Arcone di Piazza della Repubblica, in un intero libro diventa un vero e prolungato spasso.

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Sopra particolar­e del «Ghetto di Firenze» di Telemaco Signorini, a destra il giornalist­a, scrittore e cuoco Giulio Piccini (Volterra 1849Firenz­e 1915) alias Jarro
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