L’Università vuole tornare a essere lenta «Più attenzione alla qualità»
A marzo incontro ispirato alla slow science. «Troppa attenzione alla quantità, poca alla qualità»
All’università serve una lezione sulla lentezza, perché oggi tutto corre troppo veloce. Gli studenti devono imparare in tre mesi quello che fino a 20 anni fa imparavano in un anno e i professori hanno tempi molto più stretti per prepararsi ad andare in aula, ai ricercatori si chiede di dimostrare più la quantità che la qualità delle loro ricerche e gli uffici amministrativi soffrono le conseguenze di tutte queste accelerazioni. Per questo l’Ateneo deve prendersi «il tempo di pensare». Si intitola proprio così il seminario lanciato dal Comitato unico di garanzia dell’Università di Firenze, il cui compito è vigilare sul rispetto delle pari opportunità e del benessere di chi lavora in Ateneo (è un organo, istituito nel 2010, che hanno tutte le amministrazioni pubbliche).
L’appuntamento è per il 23 marzo, ma prima — entro il 30 gennaio — il Comitato chiede a tutti coloro che vivono l’università (dai professori ai dipendenti degli uffici, passando per studenti, ricercatori, tecnici di laboratorio) un contributo sul tema. E lancia un «call for paper», come si dice in gergo universitario, che servirà a selezionare i relatori della lezione sulla lentezza che si svolgerà nell’aula magna di piazza San Marco alla presenza del rettore Luigi Dei. «Vorremmo vedere la partecipazione di tutti coloro che pensano di avere un contributo da dare, qualcosa da dire di significativo, a partire dal loro specifico punto di vista. Lanciare una “call for papers” ci è sembrato il modo più aperto e inclusivo per selezionare i relatori», spiega Brunella Casalini, presidente del Comitato e professore associato di filosofia politica all’Ateneo fiorentino (le riflessioni, massimo sei cartelle da 2.000 battute ciascuna, vanno inviate all’indirizzo cug@unifi.it entro fine gennaio).
Il seminario trae ispirazione dal manifesto per la «slow science» lanciato in Germania nel 2010, che ha fatto tesoro delle intuizioni del più famoso movimento slow food per portare la sfida della lentezza all’interno delle università. Una sfida rilanciata ultimamente nel libro «The slow professor» in cui due docenti canadesi, Maggie Berg e Barbara K. Seeber, raccontano il proprio malessere e la propria frustrazione rispetto ai ritmi che l’università impone a chi ci lavora.
Un tema difficile da affrontare in Italia dove, dice Casalini, «la stampa e l’opinione pubblica sono così affezionate allo stereotipo del professore universitario come persona privilegiata per la grande quantità di tempo a sua disposizione ed è difficile parlare di una “scienza lenta” e di una “accademia lenta”. Si corre il rischio di rafforzare l’idea che gli accademici non facciano nulla e quindi siano fondamentalmente inutili».
Ma non è così e, sostiene Casalini, sul banco degli imputati va semmai messo il modello manageriale che si è imposto negli ultimi anni (con la riforma firmata da Maria Stella Gelmini, anche se l’accelerazione parte probabilmente con la riforma del 3+2 di Luigi Berlinguer).
«Il modello manageriale ha influito in modo determinante in questi processi: la spinta alla continua rendicontazione di tutte le fasi della ricerca, e in particolare dei prodotti della ricerca, e della didattica hanno creato un meccanismo perverso per cui la quantità, che sola è misurabile, viene ad essere scambiata per qualità. Dobbiamo produrre di più in tempi sempre più compressi tra un’infinità di altre piccole e grandi cose da fare», dice la professoressa. «Siamo passati da una totale assenza di valutazione delle attività dei docenti/ricercatori ad una valutazione costante che crea non solo ansia da prestazione — sottolinea Casalini — ma incrementa la spinta alla competizione e all’individualismo, in un mondo — quale quello della ricerca — in cui la regola dovrebbe essere piuttosto la comunicazione, lo scambio critico e la cooperazione». E l’elogio della lentezza, quella che serve per studiare e pensare.