Corriere Fiorentino

Qui niente regole né controlli: la terra di nessuno

Viaggio tra Sesto e Firenze: rifiuti in strada, mercati abusivi, fabbriche-dormitorio Una città nella città, dove non ci sono leggi

- di Giulio Gori e Jacopo Storni

Gli scatoloni, le buste nere di rifiuti o il televisore. Su via dei Giunchi, la strada che fa da spartiacqu­e tra Firenze e Sesto Fiorentino ogni pezzo di marciapied­e fa da discarica: si esce dal capannone e si rovescia di fronte tutto quel che non serve più. Girato l’angolo, in via Di Vittorio da anni ogni mattina c’è il mercato delle verdure. È abusivo. E dentro la pescheria sull’angolo, il negoziante cerca di vendere un’enorme testa di ombrina, che puzza di giorni e giorni di attesa sul bancone. Non ci sono cartelli che indichino di essere entrati in un altro Paese, con leggi tutte sue.

Ma all’Osmannoro, in mezzo al blu senza sbavature dei muri dell’Ikea, alle insegne luccicanti di Chateau d’Ax o Unieuro, alle centinaia di furgoni bianchi dell’Iveco, i clienti scivolano via veloci in automobile senza badare agli scheletri dei capannoni chiusi da anni, alle montagne di sudicio, ai cinesi che nei giardini di piazza Marconi distendono decine e decine di bietole a seccare sotto il sole. Per terra. In linea d’aria sono appena sette chilometri dalla cupola del Duomo e dalle vetrine luccicanti del quadrilate­ro d’oro. Ma è un’altra civiltà. Non è solo questione di marginalit­à, di disperati in cerca di un tetto per ripararsi dal freddo, costretti a fuggire perché tutto prende fuoco. Né solo di stranieri che non parlano la nostra lingua.

Di nuovo nel prato di piazza Marconi, giusto accanto al baracchino del lampredott­aio, ci sono chiazze rosse con avanzi di interiora, carote e cipolle. Non c’è bisogno di preoccupar­si di arrivare fino a un cassonetto, i pentoloni di quel che non serve più si rovesciano a cinque metri di distanza, sull’erba. Nessuno ha bisogno di nasconders­i: nello stesso capannone dove sorge il «Factory Store», la fabbrica da cui un anno e mezzo fa partì la ribellione dei cinesi contro i controlli dell’Asl, c’è un bambino che gioca nel piazzale accanto agli stendini con i panni, le coperte e le lenzuola ad asciugare. Al piano di sopra ci sono i dormitori. Neppure di fronte a una chiesa ci si fa scrupolo: dentro il piazzale di un capannone di via Sacco e Vanzetti ecco la parrocchia cino-cristiana, «Cristian Evanglica Espansione» (scritto così), accanto a una fabbrica di tessuti con una parete di compensato che fa tra tramezzo, per i letti che ad ascoltare i cinesi dell’Osmannoro non esisterebb­ero.

Nel parcheggio, il cofano di un’automobile fa da stendino per asciugare le solite bietole cinesi. Altra fabbrica, in via Redi, stavolta produzione e rivendita di borse a ingresso libero: sul recinto, i vestiti dei bambini ad asciugare, nel parcheggio Audi e Bmw nuove fiammanti, accanto ad automobili col cartello «veicolo sottoposto a fermo»; sulla porta, conigli, braciole, pancetta, tutto infilzato negli spiedi e messo ad essiccare al sole. È il benvenuto per i clienti in cerca di borse da due lire.

Dentro, in uno dei tanti box in cui si lavora con le macchine da cucire, una coppia di cinesi cucina con un pentolino in mezzo ai pezzi di pelle, alla plastica, per dar da mangiare al loro bambino. Norme di sicurezza, nessuna. Al piano sopra, ed è una sorpresa, non ci sono solo i dormitori. Ci sono due grandi stanzoni che fanno da mensa: fornellini a gas, piatti di plastica, bottiglie e stoviglie appoggiate per terra su pavimenti luridi.

Chi lavora al piano di sotto, sale su con la famiglia, si siede attorno a uno dei tavoli rotondi, mentre un gruppo di donne è intento a cucinare. Nessuno che parli italiano. Neppure negli appartamen­ti occupati in via Avogadro, proprio davanti all’ex Aiazzone, andata a fuoco un anno fa durante l’occupazion­e di un gruppo di somali. Il capannone ha la porta murata, con l’insegna ancora annerita dalle fiamme che uccisero Alì Muse. Mentre sul muro della palazzina sgangherat­a di fronte c’è un foglio con una scritta a mano: «Via Avogadro n. 3». La targa col civico è fai-da-te. Per le scale i piccioni

Manodopera Qui arrivano dall’Africa o dall’Europa dell’Est, in tanti cercano casa perché ogni tanto sperano di lavorare per conto dei nuovi padroni cinesi

svolazzano in mezzo ai guardaroba che stanno sul pianerotto­lo perché dentro i tre appartamen­ti c’è bisogno di spazio per metterci più letti possibile. Anche qui vivono cinesi, la sensazione è che si tratti di un’occupazion­e. Ma sulle porte ecco le sbarre per paura che qualcuno possa entrare e occupare a sua volta.

L’Osmannoro è un bunker colabrodo. Una vecchia fabbrica ha l’ingresso murato, un cartello che spiega che l’edificio è pericolant­e. Ma basta guardare da un lato, per vedere che nella parete si apre uno squarcio di dieci metri per dieci. Infilarsi là dentro per ripararsi dal freddo, magari accendendo un falò, non è difficile per gli eserciti di disperati che non vogliono restare all’addiaccio. Un capannone va a fuoco? Tutti dentro a quello accanto. In una catena di

«traslochi» che via via porta i gruppi di stranieri a rifugiarsi in strutture sempre più pericolose.

Davanti all’Ikea, in bella vista per tutti i clienti che mettono la macchina nel parcheggio, i resti dell’occupazion­e di rumeni finita martedì scorso fa con l’incendio che ha ucciso Marian Ciungo sono in bella vista: nel piazzale sono rimasti passeggini, vestiti, giocattoli, non c’era niente di nascosto. Ikea, proprietar­ia dell’edificio, ha deciso di vigilare il perimetro solo dopo l’incendio. Eppure dal balcone del primo piano pendono ancora i panni di chi ci viveva abusivamen­te.

Che arrivino dall’Africa o dall’Europa dell’Est, in tanti cercano casa qui perché qui ogni tanto sperano di riuscire a lavorare per conto dei nuovi padroni cinesi: nei capannoni delle borse di pelle che sembra plastica, tra i box dove si vive chini sulle macchine da cucire, in questi giorni ci sono anche dei ragazzi di colore, dall’Africa centrale. L’impiego è a giornata, e quando c’è qualche orlo in più da cucire ci sono i soldi per la cena. Altrimenti si spera nella mattina dopo.

I confini dello Stato libero dell’Osmannoro si allargano. I rumeni scampati all’incendio di martedì mattina hanno scelto di riparare in uno stabile vuoto a meno di due chilometri di distanza, in via Lucchese. La macchia si allarga fino a via Pistoiese, dove c’è un’altra occupazion­e storica, quella dell’ex Gover. Una delle più terribili, dove il rischio di un incendio, di un’altra tragedia non è un’ipotesi remota.

Qui, l’albero di Natale è all’ingresso della baracca. Luccicano le stelle filanti, c’è perfino il puntale. Accanto all’albero c’è uno specchio, appoggiato per terra. C’è un cane, si chiama Mickey, sull’asfalto la bacinella col suo cibo: croccantin­i, pezzi di pane avanzati, pasta non finita. Oggetti di una vita normale, che però normale non è. Il posto è fatiscente, ai limiti della vivibilità. Le stamberghe sono in legno e plastica. Per terra ci sono dieci bottiglie piene d’acqua. Servono per lavarsi. Non ci sono docce, non c’è acqua corrente, non c’è elettricit­à, non c’è riscaldame­nto.

Eppure, nonostante tutto, le famiglie che ci vivono non si arrendono. La strada si chiama via del Pesciolino, una delle tante traverse lungo via Pistoiese. Dell’ex Gover non è rimasto che lo scheletro. È sparito il tetto. Vegetazion­e tutt’intorno. Carcasse d’auto, montagne di rifiuti. Quattordic­imila metri quadrati di degrado. Sono in venti, quasi tutti rumeni, alcuni di etnia rom. Per riscaldare queste baracche si usano bombole a gas che servono anche per cucinare. Dentro una stamberga, c’è anche una specie di caminetto abusivo. «Non fotografar­lo — dice una occupante — se qualcuno se ne accorge mi sgomberano».

Non vogliono essere sgomberati, almeno senza alternativ­e dignitose. Fino a ieri, molte di queste persone avevano una vita normale. «Lavoravo come cameriera ai piani negli alberghi di lusso, vivevo in piazza Beccaria. Poi ho fatto la badante, ma quando è morta la signora sono rimasta senza lavoro». Ed non è finita qui. Non vuole dire il suo nome, non vuole fotografie: «Potrebbero riconoscer­mi, la mattina ora faccio la colf da una signora, non sa che abito qui, non voglio che lo sappia».

La politica, all’ex Gover, ci è entrata più volte: lo fece Matteo Renzi, quando era sindaco, lo fanno spesso i vigili urbani, lo ha fatto di recente il consiglier­e regionale Giovanni Donzelli, che denuncia «l’incuria, l’insicurezz­a, la sporcizia e il degrado». Ma non è facile trovare un’alternativ­a: gli occupanti non sono profughi, sono senza tutele, e loro stessi rifiutano di essere ospitati in strutture d’accoglienz­a emergenzia­li, perché non vogliono essere divisi: «Vogliamo restare insieme». All’ingresso della baracca c’è la bandiera dell’Italia, circondata dal fango.

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L’ex Aiazzone andata a fuoco l’anno scorso: morì un rifugiato somalo
Una signora romena vive dentro una delle baracche all’interno dell’area degradata dell’ex...
I sigilli al capannone andato a fuoco martedì scorso: nell’incendio è morto un ragazzo rom L’ex Aiazzone andata a fuoco l’anno scorso: morì un rifugiato somalo Una signora romena vive dentro una delle baracche all’interno dell’area degradata dell’ex...
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