UNA CARTA A DOPPIO USO, POI CI È ANDATA BENE...
Il 22 dicembre 1947 veniva approvata la Costituzione repubblicana Avrebbe potuto reggere anche una democrazia socialista, l’abbiamo scampata bella
La seduta del 22 dicembre 1947 dell’Assemblea costituente è una seduta storica. L’assemblea, presieduta da Umberto Terracini, approva con 453 voti favorevoli e 62 contrari la Legge fondamentale della Repubblica.
Promulgata il 27 dicembre, entra in vigore il primo gennaio 1948.
La seduta inizia alle 17 e si apre con la lettura del processo verbale della precedente seduta pomeridiana da parte della segretaria comunista Teresa Mattei, fiorentina d’adozione e non a caso eletta nel collegio di Firenze-Pistoia. Dopo di che la parola passa a Meuccio Ruini, presidente della commissione per la Costituzione, detta dei Settantacinque.
Dopo aver consegnato il testo alla presidenza, Ruini riconosce che i membri del comitato di redazione «si sono divisi e hanno combattuto fra loro». Ma, sottolinea, vi è stato dopotutto uno spirito comune. Osserva poi che «è la prima volta, nel corso millenario della storia d’Italia, che l’Italia unita si dà una libera Costituzione». Certo, dice, i princìpi fondamentali possono apparire vaghi e nebulosi. Ma sono il risultato del compromesso intervenuto tra le tre culture: la laico-liberale, la cattolica e la socialcomunista. E tiene a chiarire che il capo dello Stato non è un fantoccio. A questo punto Terracini indice la votazione finale a scrutinio segreto con appello nominale del testo costituzionale. Una modalità di voto prescritta dallo Statuto albertino e recepita dal regolamento della Camera accolto dall’assemblea. Vota anche Terracini. Cosa che non era più avvenuta da quando nella seduta di Montecitorio del 2 marzo 1877 il presidente Francesco Crispi si era fatto togliere dalla chiama. Alla proclamazione del voto, l’assemblea si leva in piedi. Ai prolungati applausi si associano i giornalisti delle tribune stampa. Si grida: «Viva la Repubblica!». Terracini dà i numeri. 47 le sedute, delle quali 170 dedicate alla Costituzione. 1.663 gli emendamenti presentati, dei quali 292 approvati. 1.090 gli interventi in discussione da parte di 275 oratori. Poi dà lettura del messaggio del capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Che dal successivo 1° gennaio sarà il primo presidente della Repubblica ai sensi della prima delle disposizioni transitorie e finali.
A sua volta il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi tesse le lodi di De Nicola con un briciolo d’ipocrisia. Perché nel maggio del 1948 si opporrà alla sua conferma a ragion veduta. Difatti i suoi formalismi e la sua permalosità lo irritano non poco. Lo considera un emerito rompiscatole. E gli preferirà il liberale Luigi Einaudi, l’uomo che aveva salvato la lira. Di gran lunga il più illustre dei nostri Presidenti.
Vittorio Emanuele Orlando, in qualità di decano, afferma che per essere un buon parlamentare occorrono vocazione ed esperienza. Una raccomandazione quanto mai valida ai giorni nostri. Ma chi se ne cura? O.N.B. era la sigla dell’Opera nazionale balilla. Fu rinverdita, giocando sulle iniziali, per designare ironicamente Orlando, Nitti e Bonomi. Grandi vecchi che sovente si guardavano in cagnesco. Valga questo gustoso episodio. Poco prima di prendere la parola, Orlando raggiunge il suo seggio salendo i gradini con scioltezza. E Nitti, che aveva difficoltà a camminare, mette una mano sulla spalla di Aldo Bozzi, il liberale con il pizzetto risorgimentale. E, con gli occhi rivolti al presidente del Consiglio della Vittoria, gli sussurra all’orecchio: «Caro Bozzi, l’arteriosclerosi è una gran brutta cosa. Prende al cervello o alle gambe. A me ha preso alle gambe». Per la serie: l’importante è volersi bene.
I deputati toscani si fanno onore fin dalla discussione del primo articolo. Il repubblicano Randolfo Pacciardi ingenuamente accoglie la formula proposta dai socialisti e dai comunisti, secondo la quale «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». A patto però che non le si dia un significato classista. Ma Giovanni Gronchi, da buon apota, dice di no a nome della Dc. Perché, osserva, «è illogico negare che la parola lavoratori ha, anche contro la volontà dei proponenti, un significato classista». A questo punto Amintore Fanfani si atteggia a onesto sensale. Propone la formula «fondata sul lavoro», che verrà accolta. Fanfani l’avrà poi vinta anche a proposito del secondo comma. Sarà difatti lui a proporre con ragione che la sovranità non emana dal popolo ma appartiene al popolo. Mentre non altrettanta fortuna arride a Giorgio La Pira. Avrebbe voluto un preambolo di tal fatta: «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione». Ma la sua rimane una voce isolata.
La cosiddetta Costituzione economica, racchiusa negli articoli 41 e seguenti, ha sempre arrovellato le meningi degli interpreti. E nella seduta del 4 marzo 1947 Piero Calamandrei non si nega il piacere di esercitare su di essa la sua proverbiale ironia. Immagina un dialogo tra un conservatore e un progressista. «Il conservatore dirà: ‘Vedi, la proprietà privata è riconosciuta e garantita’. Il progressista risponderà: ‘Sì, ma i beni possono appartenere allo Stato o ad enti pubblici’». Ancora. Il conservatore dirà: «L’iniziativa economica privata è libera». Ma il progressista replicherà: «Sì, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale». Ne consegue che in via interpretativa avremmo potuto avere una Repubblica socialista anziché liberaldemocratica. Diciamocela tutta: l’abbiamo scampata bella.
Toscani in prima fila Il no di Gronchi che fece cambiare l’articolo 1 E l’ironia di Calamandrei sul diritto di proprietà