NOVECENTO, CHI TI CONOSCE?
In un tempo in cui la cultura collettiva procede spesso per anniversari sorprende che ci si avvicini quasi in silenzio ai settant’anni della Costituzione repubblicana, firmata dal capo dello Stato De Nicola il 27 dicembre ed entrata in vigore il primo gennaio 1948. Il compleanno della nostra Costituzione, che nell’antifascismo ha uno dei suoi cardini, cade in un tempo in cui si riaffacciano i segni di un fascismo pervasivo. Alla vigilia di una delicatissima tornata elettorale l’opinione pubblica si è divisa sulle intimidazioni alla stampa e alle associazioni che si occupano di migranti e sulla vicenda fiorentina della caserma Baldissera, derubricando spesso questi episodi a eventi marginali, a gesti di giovani incoscienti e forse in parte comprensibili, arrivando a paventare un uso strumentale dell’antifascismo per «distrarre» gli elettori. Forse il campanello d’allarme più preoccupante del crinale storico su cui la Repubblica si trova, è stata la scelta del Comune di Firenze di concedere gli spazi pubblici solo a quelle realtà associative che hanno una «certificazione» antifascista. Il sottinteso di questa scelta è infatti un contesto nel quale la distinzione fra fascismo e antifascismo è progressivamente sfumata fino a farsi indistinta, custodita dal numero sempre più esiguo di chi ha visto la propria vita segnata dal peso tragico di quella distanza.
Non si tratta solo di una perdita di memoria ma di qualcosa di più radicale che si è consumato con una progressiva eclissi dell’antifascismo iniziata negli anni Settanta per lo più nell’indifferenza collettiva di chi doveva curarsi della coscienza democratica del Paese. Piccoli passi di una controtendenza sono iniziati negli anni Novanta, all’inizio di una stagione di riforme della scuola purtroppo mai compiuta, quando si voleva che gli studenti italiani conoscessero il Novecento e maturassero una coscienza storica delle radici della nostra democrazia repubblicana. L’esigenza di rilasciare «patenti» di antifascismo dimostra però quanto le istituzioni, le realtà educative, la cultura, abbiano fallito in questo obiettivo, riducendo l’insegnamento della storia ad un accumulo di nozioni, ad un programma da completare entro la fine dell’anno scolastico. Questo esito ha certamente responsabilità politiche precise ma affonda le radici in un atteggiamento più generale di autoassoluzione che l’intero Paese ha nei confronti del proprio passato.
È figlio di una ideologizzazione della Resistenza che ha fatto dimenticare le responsabilità delle forze economiche e sociali e di quei pezzi dello Stato che agevolarono la presa del potere del fascismo e contribuirono alla costruzione del regime e ai suoi esiti antisemiti e bellicisti. È figlio anche di una mancata coscienza storica della Chiesa, che preferì l’autoritarismo di Mussolini al popolarismo sturziano. Non si tratta di intavolare processi postumi, ma di comprendere il valore civile, culturale e politico della ricerca e dell’insegnamento della storia, che sono il nutrimento essenziale della coscienza comune di un Paese che non nega il proprio passato ma di esso è consapevole e si assume la responsabilità.