Il miracolo (laico) di Amerigo
25 dicembre: un anno fa nasceva un bambino. Poteva andare diversamente
Questa è la storia di Amerigo, nato il giorno di Natale, e della sua malformazione che ci ha messo di fronte a una grande opportunità.a
Chiamatela pure sfortuna, io oggi preferisco chiamarla opportunità. L’opportunità di vedere la vita con una lente di ingrandimento, valutandone sfumature che altrimenti avrei dato per scontate. Questa è la storia di Amerigo, ed è una storia di Natale.
Lo è per un duplice motivo. Il primo è del tutto casuale, perché Amerigo ha deciso di nascere il 25 dicembre 2016. Il secondo invece non lo è: credo che sia una storia di Natale perché racchiude il senso della vita, del miracolo della vita. Un miracolo laico, in questo caso, ma pur sempre un miracolo. Il mio bambino è nato il 25 dicembre dello scorso anno con un’ernia diaframmatica, una malformazione dal nome indecifrabile e misconosciuto dietro la quale si nasconde un problema grande come una voragine. Una voragine aperta nel diaframma, che colpisce un bambino ogni 3 mila nati. A cinque mesi di gestazione, durante l’ecografia chiamata morfologica, scopriamo — io e mio marito — che c’è un problema. Un problema che non era stato minimamente contemplato e che, se nessuno se ne fosse accorto, sarebbe costato la vita di Amerigo al suo primo respiro. Eravamo lì al buio, con l’ecografo puntato sulla pancia, ed è stato come se ad un bambino venisse recapitato un voluminoso pacco, ci spiasse dentro con una lucina e scoprisse che il contenuto è difettoso.
Accidenti. E ora? Si rimanda il pacco al mittente oppure si aspetta un po’ e si prova a ripararlo? L’aborto non era nemmeno mai stato preso in considerazione. Non per una questione di principio. Lo consideravo — e continuo a considerarlo — un diritto, in determinate situazioni. Ma non era stato contemplato perché... no. Semplicemente no. Perché in cuor tuo non pensi mai che debba capitare a te il «balocco difettoso». E invece eccolo lì. Sul piatto della bilancia c’è un biglietto che dice che se il tuo pacco ha qualcosa che non va, e questo qualcosa ne pregiudica per sempre il funzionamento, entro quella data lo puoi rispedire al mittente. Chi crede in Dio al mittente non lo rispedisce mai. Chi invece — come noi — ha qualche dubbio sulla sua esistenza, si interroga, si arrovella e cerca di capire quale strada sia giusto percorrere. Ma vorrebbe non doverlo fare, perché la sola idea fa tremare le gambe, soprattutto quando — da donna — si passa da una proiezione quasi virtuale della maternità ad una sensazione fisica di presenza quotidiana, e da uomo si brancola nel buio, in balia delle emozioni.
E allora si parla, si indaga, si sentono pareri esperti e si cerca di avere la lucidità necessaria per valutare il da farsi. Si scopre che, se si va oltre il termine di legge per l’interruzione della gravidanza in Italia (24 settimane e cinque giorni), si può varcare il confine e andare all’estero, in Francia ad esempio, dove invece l’aborto terapeutico viene effettuato fino quasi al termine della gravidanza. Cosa significa? Significa che nel caso avessimo scoperto, analisi alla mano ma oltre il termine di legge, che il bambino aveva delle patologie invalidanti correlate alla malformazione (patologie che avrebbero compromesso la sua vita) in Italia non avremmo potuto fare niente se non attendere il parto. Ci saremmo però potuti mettere in macchina, attraversare la Liguria e poi il confine francese e lì, in Costa Azzurra, rivolgersi ad una clinica per chiedere di interrompere la gravidanza anche nelle settimane successive. In un Paese che non è il tuo, con una lingua che non è la tua, certo. Lontano dalla tua famiglia e dagli affetti, certo. Niente ce lo avrebbe potuto impedire, a parte le nostre gambe che continuavano a tremare. Scopriamo anche che nel bel paese, controsensi della nostra legislazione, se è la donna ad essere in grave pericolo di vita, l’aborto terapeutico può essere praticato.
Questo non è contemplato per le gravi condizioni del bambino. Se è lui a stare male, a rischiare la vita, la gravidanza va portata fino in fondo. L’esame sul dna, che tardava ad arrivare, alla fine ha dato dei risultati rassicuranti e abbiamo deciso di dare una chance ad Amerigo. Non perché siamo particolarmente bravi, o particolarmente coraggiosi o spregiudicati. Ma perché abbiamo incontrato le persone giuste, e abbiamo dato fiducia ad una diagnosi prenatale accurata (fonda-
Cammino Il mio bambino è nato il 25 dicembre, c’era il 75% di possibilità che ce la facesse: ora cresce vivace e curioso Insegnamento Il team di terapia intensiva neonatale ci ha fatto capire che amare è una cosa complessa come una diagnosi puntuale
mentale) e poi alla medicina, alla ricerca, alla cultura, al progresso, all’esperienza e alle statistiche che ci dicevano che Amerigo avrebbe potuto vivere. E avrebbe potuto vivere bene. C’era il 75% di possibilità che ce la facesse. Il 25% che non superasse i primi giorni di vita, o la delicata operazione che lo aspettava. Il primario di chirurgia dell’Ospedale Pediatrico Meyer, Bruno Noccioli, ci aveva detto così. E noi ci siamo fidati della sua esperienza, della sua cultura, del suo saper fare. E anche del suo modo di raccontarlo, con garbo ma senza mezzi termini. Amerigo è un bimbo fortunato. Io e mio marito lo siamo ancora di più. Il nostro «pacco», arrivato a destinazione il giorno di Natale, è stato accolto dalla maternità dell’ospedale fiorentino di Careggi e «riparato» dalla straordinaria equipe del Meyer, che ha salvato non solo la vita di un neonato ma anche quella di due neogenitori trentacinquenni.
Amerigo non è un giocattolo, è un bambino (anche se credo non ci sia niente di offensivo nel paragonarlo ad una cosa fondamentale e seria come un gioco), un bambino che cresce vivace e curioso. E questa esperienza è stata davvero per noi una grande opportunità. Un’opportunità di capire, di crescere, di soppesare, di conoscere, di trascurare un po’ di più il superfluo e di smettere di pensare di poter essere a credito con la vita solo perché ti ha già messo alla prova. Abbiamo avuto la fortuna di vivere a contatto per quasi due mesi con un team speciale, quello della terapia intensiva neonatale del Meyer guidata da Patrizio Fiorini, che ci ha insegnato (senza doverlo spiegare) che amare è una cosa complessa come una diagnosi puntuale. Come un ago infilato in una vena microscopica. Come un respiratore da monitorare costantemente. Come un saturimetro che suona in continuazione.
Ma anche una cosa necessariamente semplice come un cerotto a forma di cuore, un carillon attaccato ad una culla termica, una copertina colorata. Una persona molto cara di recente mi ha detto che «anche i drammi possono essere forieri di grande bellezza». Ecco, credo davvero — oggi più che mai — che questa sia una grande verità. Buon Natale. E buon compleanno a tutti i bambini che sono nati e che nasceranno in questo giorno speciale.