Quanti Mastroianni in quelle sale rionali
I cambiamenti delle cose si avvertono anche dalla trasformazione delle parole. I ragazzi di oggi dicono «guardo un film»: non importa se in tv, in streaming, su YouTube. Una volta si diceva «vado al cinema». Quel che contava era uscire, incontrarsi fra amici, per i più acculturati sdottoreggiare al cineforum dello Stensen. Si entrava in una sala per coronare un pomeriggio domenicale, per approfondire la conoscenza con una ragazza (“Mi porti al cinema e guardi il film» era la lamentela di una disperata Mina in «Renato»), o magari per indirizzare fescennini agli attori. E persino, chi in casa aveva solo una stufa, per trascorrere un pomeriggio al calduccio, assistendo a tre spettacoli di fila. Firenze offriva, negli anni d’oro, una scelta per tutti i gusti e le tasche. C’erano le prime visioni: negli anni ’60 mille lire di biglietto, quanto un pasto in una buona trattoria. Chi scrive vi andava grazie ai buon uffici di un compagno di classe, zoppicante in latino ma usufruttuario di un magico tesserino rilasciato al padre, funzionario della Questura: versioni di latino contro prime visioni. Quei cinema avevano poltroncine imbottite, scialo di specchi nell’antisala, maschere premurose. Nascevano spesso dall’adattamento di teatri in disarmo, con nomi che riportavano alla Belle Epoque: Odeon, Excelsior, Gambrinus, Edison, Ariston, Capitol, Principe, per tacere del Supercinema, erede della vecchia Quarconia, dove tutti gli spettatori si alzarono in piedi dinanzi al seno nudo di Vanessa Redgrave in Blow Up, come se avesse segnato Hamrin allo stadio. C’erano poi le seconde visioni: poltroncine lise o in vilpelle, maschere più sbrigative, in certi casi teatri a mezzo servizio, come il Niccolini, elegante e mal riscaldato come il salotto di un vecchio nobile decaduto, o l’Apollo, già Rex, «nuovo sfolgorante cinema teatro» rimasto tale nella «civetta» anche quando cadeva a pezzi.
Erano il Cavour, dell’omonima via, il Modernissimo, dove ora è il teatro della Compagnia, il Galileo in Borgo Albizi, il Fiorella, in via d’Annunzio, l’Arlecchino, davanti al Ponte Vecchio, che a ritmi alterni proiettava film per bambini e film erotici, il Goldoni, in via dei Serragli, l’Astor di via Romana, i due Flora, in piazza Dalmazia. Erano le sale di una borghesia cresciuta nel culto del decoro e del risparmio, disposta a pazientare prima di vedere l’ultima pellicola, ma non a confondersi col popolo. E poi c’erano le terze, le più divertenti, in cui spesso non si andava per vedere il film ma per ascoltare i commenti del pubblico. Si chiamavano Universale, in realtà ultrarionale, con la sua magnetica capacità di attirare la feccia di una San Frediano non ancora «gentrizzata», Gardenia, a Coverciano, Stadio, Ideale, zona Cure, Garibaldi, in Santa Croce, Aurora, oggi Fiamma, al ponte del Pino, Sole, Cristallo, gli ultimi due con i sedili di duro legno e i marmi littori che ne denunciavano le origini di dopolavoro. La programmazione era settimanale e al lunedì toccava sorbirsi le «anteprima» di sei giorni, ma pazienza: andare al cinema era una festa ed era bello anche assistere ai cinegiornali. C’erano anche i locali specializzati: l’Astro, in piazza San Simone, dove si proiettavano pellicole in inglese, o l’Italia, in via Nazionale, l’unico aperto la mattina, storico cinema per forcaioli in cui un buontempone aveva sparso la voce che girassero ronde di insegnanti emuli del professor Unrat dell’Angelo Azzurro, e le «arene giardino» per le afose notti estive. E poi, il sacro e il profano: da una parte i cinemini parrocchiali come il Faro, dove si davano anche gli esami per la patente, o il Portico, accanto alla chiesa di via Masaccio ribattezzata dai fiorentini «lo Sputnik», dall’altra l’avanspettacolo con il suo profumo di polvere di stelle: più polvere che stelle, perché il genere già negli anni ’70 era in declino. Chiuso lo storico Cristallo, dopo la demolizione dell’ex Gil, ci si spostava in provincia, fino a Campi. Anche oggi i fiorentini vanno a Campi, ma per entrare in una multisala. È tutto bello e comodo, il parcheggio è gratis, il posto numerato come a teatro. C’è ancora l’intervallo, ma solo perché il pubblico deve consumare. Ma, a mezzo secolo di distanza, permettete a chi scrive di rimpiangere quei vecchi cinema rionali con i cinegiornali della settimana Incom e la cassiera compiacente che, se avevi quattordici anni ma un’ombra di barba coltivata, ti permetteva di entrare anche quando si proiettava un film «rigorosamente vietato ai minori di 18». E ti sentivi già un Mastroianni, o un Trintignant.