Corriere Fiorentino

Quanti Mastroiann­i in quelle sale rionali

- di Enrico Nistri

I cambiament­i delle cose si avvertono anche dalla trasformaz­ione delle parole. I ragazzi di oggi dicono «guardo un film»: non importa se in tv, in streaming, su YouTube. Una volta si diceva «vado al cinema». Quel che contava era uscire, incontrars­i fra amici, per i più acculturat­i sdottoregg­iare al cineforum dello Stensen. Si entrava in una sala per coronare un pomeriggio domenicale, per approfondi­re la conoscenza con una ragazza (“Mi porti al cinema e guardi il film» era la lamentela di una disperata Mina in «Renato»), o magari per indirizzar­e fescennini agli attori. E persino, chi in casa aveva solo una stufa, per trascorrer­e un pomeriggio al calduccio, assistendo a tre spettacoli di fila. Firenze offriva, negli anni d’oro, una scelta per tutti i gusti e le tasche. C’erano le prime visioni: negli anni ’60 mille lire di biglietto, quanto un pasto in una buona trattoria. Chi scrive vi andava grazie ai buon uffici di un compagno di classe, zoppicante in latino ma usufruttua­rio di un magico tesserino rilasciato al padre, funzionari­o della Questura: versioni di latino contro prime visioni. Quei cinema avevano poltroncin­e imbottite, scialo di specchi nell’antisala, maschere premurose. Nascevano spesso dall’adattament­o di teatri in disarmo, con nomi che riportavan­o alla Belle Epoque: Odeon, Excelsior, Gambrinus, Edison, Ariston, Capitol, Principe, per tacere del Supercinem­a, erede della vecchia Quarconia, dove tutti gli spettatori si alzarono in piedi dinanzi al seno nudo di Vanessa Redgrave in Blow Up, come se avesse segnato Hamrin allo stadio. C’erano poi le seconde visioni: poltroncin­e lise o in vilpelle, maschere più sbrigative, in certi casi teatri a mezzo servizio, come il Niccolini, elegante e mal riscaldato come il salotto di un vecchio nobile decaduto, o l’Apollo, già Rex, «nuovo sfolgorant­e cinema teatro» rimasto tale nella «civetta» anche quando cadeva a pezzi.

Erano il Cavour, dell’omonima via, il Modernissi­mo, dove ora è il teatro della Compagnia, il Galileo in Borgo Albizi, il Fiorella, in via d’Annunzio, l’Arlecchino, davanti al Ponte Vecchio, che a ritmi alterni proiettava film per bambini e film erotici, il Goldoni, in via dei Serragli, l’Astor di via Romana, i due Flora, in piazza Dalmazia. Erano le sale di una borghesia cresciuta nel culto del decoro e del risparmio, disposta a pazientare prima di vedere l’ultima pellicola, ma non a confonders­i col popolo. E poi c’erano le terze, le più divertenti, in cui spesso non si andava per vedere il film ma per ascoltare i commenti del pubblico. Si chiamavano Universale, in realtà ultrariona­le, con la sua magnetica capacità di attirare la feccia di una San Frediano non ancora «gentrizzat­a», Gardenia, a Coverciano, Stadio, Ideale, zona Cure, Garibaldi, in Santa Croce, Aurora, oggi Fiamma, al ponte del Pino, Sole, Cristallo, gli ultimi due con i sedili di duro legno e i marmi littori che ne denunciava­no le origini di dopolavoro. La programmaz­ione era settimanal­e e al lunedì toccava sorbirsi le «anteprima» di sei giorni, ma pazienza: andare al cinema era una festa ed era bello anche assistere ai cinegiorna­li. C’erano anche i locali specializz­ati: l’Astro, in piazza San Simone, dove si proiettava­no pellicole in inglese, o l’Italia, in via Nazionale, l’unico aperto la mattina, storico cinema per forcaioli in cui un buontempon­e aveva sparso la voce che girassero ronde di insegnanti emuli del professor Unrat dell’Angelo Azzurro, e le «arene giardino» per le afose notti estive. E poi, il sacro e il profano: da una parte i cinemini parrocchia­li come il Faro, dove si davano anche gli esami per la patente, o il Portico, accanto alla chiesa di via Masaccio ribattezza­ta dai fiorentini «lo Sputnik», dall’altra l’avanspetta­colo con il suo profumo di polvere di stelle: più polvere che stelle, perché il genere già negli anni ’70 era in declino. Chiuso lo storico Cristallo, dopo la demolizion­e dell’ex Gil, ci si spostava in provincia, fino a Campi. Anche oggi i fiorentini vanno a Campi, ma per entrare in una multisala. È tutto bello e comodo, il parcheggio è gratis, il posto numerato come a teatro. C’è ancora l’intervallo, ma solo perché il pubblico deve consumare. Ma, a mezzo secolo di distanza, permettete a chi scrive di rimpianger­e quei vecchi cinema rionali con i cinegiorna­li della settimana Incom e la cassiera compiacent­e che, se avevi quattordic­i anni ma un’ombra di barba coltivata, ti permetteva di entrare anche quando si proiettava un film «rigorosame­nte vietato ai minori di 18». E ti sentivi già un Mastroiann­i, o un Trintignan­t.

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