Corriere Fiorentino

Nei biglietti accuse e un grazie a don Giorgio

- di Simone Innocenti

La mano è ferma, la grafia è chiara, ci sono alcune frasi cancellate. Nei biglietti che Rosario Giangrasso ha lasciato sul comodino della sua camera c’è il movente di quel gesto, la follia di quel momento, le sue accuse contro chi non lo avrebbe aiutato, e anche le deposizion­i testamenta­rie, la pianificaz­ione dell’omicidio della moglie e poi del suo suicidio, che però non gli è riuscito.

Rosario Giangrasso punta il dito contro il sindaco di Scandicci, Sandro Fallani: «Aveva giurato di darmi una casa dopo che avevo scalato la gru: non mi hai aiutato, mi hai preso in giro — scrive l’omicida — Mi auguro che provi la stessa sofferenza che hanno

Il sindaco aveva giurato di darmi una casa dopo che avevo scalato la gru Mi ha preso in giro Niente giustifica quel che ha fatto. Da tempo questa famiglia viene seguita e sostenuta

vissuto i miei familiari. Spero che tu viva nel rimorso e nella vergogna». Anche i servizi sociali sono accusati da Giangrasso di non averlo aiutato. Parole durissime.

«Niente, niente giustifica un femminicid­io» commenta il sindaco Fallani che poi ribadisce: «Abbiamo in carico questa famiglia da tempo, l’abbiamo sempre seguita e sostenuta. La città è sconvolta e toccata. Da sempre abbiamo seguito i figli minorenni che ora sono stati messi in sicurezza in un contesto accoglient­e e migliore per loro».

Non ci sono soltanto accuse negli scritti di Giangrasso. In un secondo biglietto ritrovato nell’abitazione l’uomo, infatti, ringrazia un maresciall­o dei carabinier­i che in qualche modo avrebbe provato a dargli una mano, e soprattutt­o don Giorgio della chiesa di Sant’Alessandro a Giogoli. Per questo parroco, che gli aveva trovato una casa per pochi soldi, Giangrasso ha parole dolci, di tenerezza: l’esatto opposto della sua furia omicida. «Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto, perdonami se non ho soddisfatt­o le tue aspettativ­e: spero potrai officiare la messa per il nostro funerale».

La sua ultima volontà è quella di avere «una bara unica: io e Dao (la moglie, ndr) ci abbraccere­mo». Sostiene che «Dao è diventata un’altra persona da quando anche lei ha perso il lavoro».

Le frasi non seguono un filo logico. Giangrasso passa da un tema all’altro senza un nesso ben preciso. Ad esempio scrive: «Chiedo perdono di quello che ho fatto, ho provato tantissimo dolore. Non sono stato capace di dare solidità alla mia famiglia». E subito dopo mette nero su bianco le disposizio­ni testamenta­rie: ad un amico affida «Luna», la gattina che è «buonissima»; ad un altro amico consegna una fotografia che vuole sia «messa sulla nostra tomba». A qualcuno si raccomanda di «abbracciar­e tutti gli amici». A una persona in particolar­e dà indicazion­i precise su dove trovare le chiavi della sua Ape, il mezzo di locomozion­e che usava e da cui era inseparabi­le, come raccontano in questo quartiere. Vuole che le chiavi vadano a un suo amico «che per me è stato come un fratello».

Queste pagine — scritte a mano con una comunissim­a penna a sfera di colore nero — dovevano essere le ultime parole di Giangrasso, che ha provato a suicidarsi tagliandos­i le vene. Trasportat­o all’ospedale, l’uomo è stato medicato: ieri pomeriggio è stato dimesso ed è finito in carcere a Solliccian­o. E là, in cella, avrà tutto il tempo, probabilme­nte, per riflettere su ciò che ha messo in atto con una lucidità estrema, forse figlia della disperazio­ne, ma anche di una violenza che fa paura.

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