La Commedia di Firenze
Un itinerario «dantesco» attraverso le lapidi con i suoi versi sui muri della città Dario Pisano spiega perché nei primi del ‘900 gli studiosi scelsero proprio quelle terzine
L’oltracotata schiatta che s’indraca / dietro a chi fugge, e a chi mostra il dente / o ver la borsa, com’agnel si placa: una targa di via delle Oche riporta questa terzina del canto XVI del Paradiso, uno dei tre che Dante dedica all’antenato Cacciaguida. Indicano, quei versi, l’arrogante famiglia degli Adimari — l’odierna via dei Calzaioli si chiamava Corso Adimari — prepotenti con i deboli, servili con i potenti o con chi li pagava.
La lapide è una delle 34 fatte sistemare dal Comune di Firenza nel 1900, per indicare i luoghi di Dante e dei personaggi del suo poema. Tracciano una sorta di itinerario che ora il filologo e dantista Dario Pisano invita a ripercorrere nel suo libro La Firenze segreta di Dante ( Newton Compton). La scelta di usare terzine di Dante senza spiegare a chi alludono era un modo criptico di segnalare luoghi e figure importanti della Firenze del Poeta. «È vero — concorda Pisano —— ma all’epoca gli studiosi che avevano scelto i versi per le lapidi contavano sul fatto che la Commedia fosse molto conosciuta». Mentre oggi nessuno guarda più quelle lapidi, o se lo fa non le capisce. Diventa così un percorso segreto quello proposto da Dario Pisano che consente ai lettori di oggi, grazie a opportune spiegazioni, di seguire Dante nei suoi anni fiorentini. L’itinerario parte e si con-
Oltre l’esilio Come Itaca per Ulisse questi luoghi sono quelli dove il poeta sognava di tornare, invano
clude con il Battistero, luogo centrale della città e della vita del Poeta. Lì fu battezzato, e lì
(Paradiso XXV, riportato nella lapide) vorrebbe ricevere la corona poetica, sempre che l’ingrata città gli conceda il ritorno. Ma com’è noto il ritorno non ci fu, e l’esilio di Dante sarebbe durato dal 1302 fino alla sua morte. «Come Itaca per Ulisse — dice Pisano — Firenze resta per Dante il luogo dove spera di tornare. Lì era nato, lì aveva percorso una rapida carriera politica interrotta drammaticamente sulla via del ritorno da Roma dov’era andato come ambasciatore presso il papa». Addirittura contro di lui sarà pronunciata la condanna a morte sul rogo. Colpa della malvagità e corruzione dei suoi concittadini, che avevano perdute le virtù di quando, secondo le parole di Cacciaguida, Firenze era ancora «sobria e pudica». Ma seppure pieno di nostalgia per la sua città, Dante non è disposto a rinunciare alla propria dignità: come quando, nel 1315, rifiuterà un’amnistia che gli concedeva il ritorno a patto di attraversare il centro città in abito da penitente, col capo coperto di cenere e una candela in mano.
Una delle vie più segnate dalle lapidi è senz’altro via del Corso, e qui spicca l’epigrafe del Palazzo Portinari, sorto sul luogo dov’erano le case della famiglia di Beatrice. A lei ave-
va dedicato il racconto in prosa e versi della Vita nova, lei lo accompagnerà attraverso i cieli del Paradiso. «Del loro amore da lontano sappiamo solo quello che Dante scrive nella Vita nova. Del resto — spiega Pisano — degli anni fiorentini di Dante, con l’eccezione della sua vicenda politica poco. Per questo presto, cominciarono a fiorire aneddoti sul caratteraccio del poeta, sulla sua strepitosa memoria, sulle sue liti e le sue amicizie. Ma è soprattutto merito di Giovanni Boccaccio se la persona e l’opera di Dante diventeranno un punto centrale della letteratura italiana». Con il Trattatello in
laude di Dante (circa 1361) Boccaccio è il padre della critica dantesca. «È un testo prezioso per chi voglia conoscere le ragioni delle scelte poetiche di Dante, come la decisione di comporre il suo poema sacro in volgare e non in latino. Geniale l’interpretazione del nome, che, se sarebbe un’abbreviazione di Durante, è pur sempre, afferma Boccaccio, un participio del verbo dare: come a dire che Dante è il poeta che dà e darà sempre il maggior nutrimento a coloro che lo leggono».
Salvo un periodo in cui godette di scarsa considerazione (il Seicento e il Neoclassicismo), l’Alighieri è sempre stato collocato al vertice della poesia italiana. Magari, come avviene nell’Ottocento, per fare di lui il profeta dell’unità italiana e l’assertore di una necessaria riforma morale degli italiani. Amato da scrittori e poeti romantici, Dante diviene universalmente noto, letto e ammirato anche all’estero. Fino alle recenti fortune del bestseller di Dan Brown, Inferno, e del film di Ron Howard. «Ma per me — conclude Pisano — è il simbolo maggiore dell’italianità. E come tale è letto e consumato all’estero».