I renziani, il canone Rai e il complesso dei più bravi
Renzi vuole abolire il canone Rai, il ministro Calenda lo critica e subito i fedelissimi del leader Pd lo attaccano. «Se a Matteo dici che sta sbagliando diventi un nemico», ha detto una volta il ministro. E in effetti la gestione del dissenso sembra un problema dei renziani.
Il governo e il Pd vanno su due binari paralleli, nonostante il secondo sia azionista di maggioranza del primo. Una distinzione che s’è vista spesso negli ultimi mesi, come se ci fossero appunto due linee: dai vitalizi alla commissione banche. Matteo Renzi, capo del Pd, vuole distinguersi quotidianamente, d’altronde il 4 marzo si vota e a dettare l’agenda per ora sono sopratutto centrodestra e Cinque Stelle.
Il nuovo duello ora è sul canone Rai, che il Pd dice di voler abolire e fiscalizzare (così ha affermato il presidente del partito Matteo Orfini). Il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda su Twitter — mezzo che usa per informare, difendersi e rispondere a tutti, anche ai cittadini, per ora senza sbrodolare — dice che il Governo Renzi «ha messo canone in bolletta e non si può promettere in campagna elettorale il contrario di quello che si è fatto al Governo. Se si vuole affrontare la questione del canone allora si ragioni su privatizzazione Rai altrimenti è presa in giro».
Una volta superato, spiegano i renziani, il canone «lo copriamo con la fiscalità generale». Come se fiscalità generale fosse sinonimo di gratis. Eppure, niente è gratis: se non paghi tu, paga qualcun altro. O pagano tutti. «I soldi dello Stato sono i soldi dei cittadini e dunque sarebbe solo una partita (presa) di (in) giro», dice ancora Calenda, che da due giorni è bersagliato dai sostenitori del segretario del Pd di ogni ordine e grado, con l’accusa di voler difendere il canone per difendere in realtà Mediaset e candidarsi, di fatto, a guidare un eventuale futuro governo di larghe intese con l’aiuto di Berlusconi. Tutta questa rinnovata ostilità per i governi di larghe intese naturalmente ce la ricordiamo e la mettiamo in un cassetto fino al 4 marzo, ma il punto interessante qui è lo scontro RenziCalenda. Non è la prima volta che accade. E non è la prima volta che finisce con i renziani che calzano l’elmetto e vanno all’assalto: «Per la cronaca, la fiscalizzazione del canone Rai è una nostra proposta storica. E rafforza la Rai. Mentre di privatizzazioni che hanno distrutto (o quasi) aziende strategiche del Paese ne abbiamo già viste troppe. E direi anche basta», dice Orfini.
Interviene anche il pratese Antonello Giacomelli, che peraltro è il sottosegretario di Calenda, con delega alle comunicazioni: «L’idea di Calenda di privatizzare la Rai? Sono contrario. E mi sembra anche contraddittorio invocare da un lato l’italianità delle infrastrutture strategiche e dall’altro proporre la privatizzazione di una realtà come Rai che, facile prevederlo, finirebbe in mani straniere». Alla fine può darsi anche che niente di tutto questo
Renzi annuncia l’intenzione di abolire il canone Rai, il ministro Calenda lo critica e subito diventa bersaglio delle critiche dei fedelissimi del leader Ed è solo l’ultimo caso in cui il renzismo va in difficoltà davanti al dissenso
compaia nel programma ufficiale, ma dal dibattito emerge uno storico problema di Renzi e dei suoi: la gestione politica del dissenso, come nota lo stesso Calenda a proposito degli attacchi dei supporter del segretario: «Lo fanno ogni volta che devio dalla linea ufficiale o esprimo pensiero autonomo. Triste e squallido ma tutto sommato innocuo».
Peraltro il ministro non è un pericoloso estremista; era in Scelta Civica, è un convinto liberista e avrebbe voluto far parte del Pd, ma non è andata bene. Lo ha raccontato recentemente in un’intervista a
L’Espresso, parlando di sé e del suo rapporto con il segretario del Pd: «Io vivo di realismo, lui di messaggi motivazionali. E in quanto al confronto, se gli dici che sta facendo un errore, entri subito nella categoria dei nemici. Per me fare politica è lavorare insieme, sennò faccio il manager, almeno mi arricchisco». Ha provato pure a iscriversi al Pd, «ed è stato un disastro. Sono andato al Nazareno e ho chiesto se ci fosse un posto dove mettere a disposizione le mie competenze, per esempio un comitato sulla globalizzazione, che però non c’era. Qualche mese fa ci ho riprovato dicendo pubblicamente che con un Pd che avesse recuperato lo spirito riformista, mi sarei impegnato volentieri. Mi avesse telefonato, che so, il segretario provinciale di Frosinone! La verità — ha aggiunto il ministro dello Sviluppo Economico — è che il Pd è un circolo chiuso. Comunque, se lo vorranno, posso dare una mano alle prossime elezioni». Pare assai difficile. Anche perché più volte il Pd ha contraddetto se stesso. «Nel mio Pd andranno avanti i più bravi, non i più fedeli, dichiarerò guerra alla mediocrità», ha ripetuto Renzi per anni. «I più bravi» però rompono le scatole, rivendicano autonomia, magari hanno avuto successo in altri ambiti, extra-politici, e non devono qualcosa al leader di turno. Il 2018, dopo anni di debordanti e trasversali sciocchezze, potrebbe essere quello giusto per riscoprire il valore della competenza. Perché il segretario del Pd non ne approfitta?