MA SENZA DOVERI NON C’È INTEGRAZIONE
Caro direttore, leggo con interesse le considerazioni del collega professor Paolo Caretti, pubblicate il 6 gennaio, in merito alla legge sullo ius soli la cui approvazione è stata rinviata alla prossima legislatura. Osservo, tuttavia, che la lettura che ne offre il collega lascia sullo sfondo, senza farne cenno, vari nodi problematici. La legge in discussione è, infatti, di per sé controversa e divisiva, costruita a maglie tendenzialmente più larghe rispetto alla esperienza di altri Paesi europei (anche degli stessi ordinamenti richiamati Spagna e Germania), e all’interno della quale sussistono delicate questioni aperte di natura giuridica che necessitano di ulteriori approfondimenti. A partire dalla nuova categoria, a dir poco evanescente, del cosiddetto
ius culturae, ai rapporti, tutti ancora da chiarire, tra le nuove norme sulla cittadinanza e la disciplina della immigrazione. Ribadisco che sia giusto che su questa legge non sia posta una pietra tombale e che si apra un serio dibattito, fuori dai toni di una virulenta campagna elettorale già in atto. Ma ciò anche alla luce di una più complessiva revisione culturale e legislativa della politica della integrazione e della cittadinanza. Una politica seria e responsabile, dove siano chiaramente definiti diritti e doveri e scrupolosamente siano rispettati e fatti rispettare. Tutto ciò premesso ritengo che l’intervento del professor Caretti risulti, rispetto alla questione che ha generato questo dibattito, non pienamente centrato. Il dottor Caffaz nella sua lettera del 2 gennaio ha ipotizzato una sorta di analogia tra la situazione degli ebrei allora messi al bando dalle infami leggi razziali e «oggi gli immigrati, quasi sempre di colore, individuati come origine delle nostre disgrazie». Affermazioni, ribadisco, insostenibili e provocatorie.