Lì ci vedo solo la borghesia, non c’è spirito proletario
L’intento di Francesca Archibugi era di ambientare una fiction a Livorno intrecciando immagini, storia e attualità. Non voleva certo raccontare Livorno con i suoi colori e le sue contraddizioni, affrescare una città dove tutto e il suo contrario, alla fine, si mescolano in un insieme originale.
non pretendeva di essere un filminchiesta e neppure di assomigliare a un approfondimento giornalistico o a una ricerca sociologica. No, aveva l’ambizione di essere soltanto quel che è: una serie televisiva ben fatta, curata e levigata, ambientata in un palcoscenico da sempre corteggiato dalla Settima Arte, fatto di contrasti tra mare e collina, tra quartieri moderni e zone degradate, tra spazi e luce. E tra poveri e ricchi.
Archibugi racconta solo uno spicchio di borghesia in una città ad alta densità proletaria. Ne mette in luce le virtù conosciute e i vizi privati, le contaminazioni tra il mondo marziale e ovattato dell’Accademia militare e le osterie che sanno di muffa ancor prima che di cibo, tra i ricchi sull’orlo del disastro e i miserabili poveri che nascondono la droga nel casco del figlio sordo e muto.
Ma dello spirito labronico, effervescente e spontaneo, non c’è traccia. O quasi. Se ne rinviene quando Giorgio, sulla sua Porsche cabrio, vede Emma ferma alla pensilina in attesa dell’autobus, preme il piede sull’acceleratore e poi inchioda all’improvviso; a quel punto dal gruppo echeggia un «vaffa». Oppure quando, ancora Giorgio, davanti alla Baracchina rossa inverte il senso di marcia e parcheggia, secondo un refrain noto ai frequentatori del lungomare.
Livorno è un’altra cosa e si riconosce in qualche scampolo di storia dosato con sapiente parsimonia e precisione chirurgica. In
si fa cenno all’impronta indelebile delle grandi famiglie ebree: i Chayes, i Sonnino, gli Attias. «Per effetto delle leggi livornine — ricorda il videomaker Marco Sisi — la città non ha mai avuto un ghetto. L’integrazione è stata perfetta e in Romanzo se ne dà una rappresentazione corretta».
Ma chi si aspetta le battute dissacranti, i dialoghi ruvidi come scogli, le immagini dei quartieri nord, resta deluso. Anzi, sbaglia genere: Francesca Archibugi ha semplicemente ambientato un film a Livorno selezionando con cura luoghi e circostanze, non ha fatto un film su Livorno. Ha proposto un’altra cosa, come ancora sottolinea Sisi, una storia che si rifà a canoni interpretativi antichi attraverso una trama che a Livorno ha trovato gli ingredienti naturali per il suo svolgimento, sui quali si sono innestate problematiche attuali.
non è una reinterpretazione delle pellicole di Paolo Virzì, che ha regalato autentici spaccati labronici, ma una fiction su temi intimi e sociali. Se anche fosse stata ambientata a Genova o a Salerno, sarebbe stata ugualmente apprezzata.