Ritratto gay
Un quadro e la storia di un amore, ai tempi dei Medici
Mentre ci guarda dritto negli occhi, lo sguardo fermo ma dolce e le labbra carnose leggermente socchiuse, con una mano si apre la camicia e con l’altra indica il suo cuore che palpita sotto un petto glabro squarciato e rivela il motto latino procul prope, ossimoro che tradotto alla lettera suona come «da lontano da vicino», ma che in questo caso significa «a distanza». È vestito all’antica e ai suoi piedi è accucciato un cagnolino, simbolo di fedeltà, che a sua volta lo guarda con devozione. Sullo sfondo due colonne alludono alla concordia, mentre le altre scritte, mors et vita sulla tunica, e hyemes et ver sopra il capo, sono le frasi con cui è convenzionalmente indicata l’amicizia. In basso a destra un bassorilievo mostra un uomo che piange un ragazzo che giace morto per terra: forse sono Achille e Patroclo, oppure Apollo e Giacinto, le cui tragiche storie d’amore furono narrate da Omero nell’Iliade e da Ovidio nelle Metamorfosi. In ogni caso, sono di certo due figure della classicità unite da un legame più che amicale.
L’opera di cui parliamo è il Ritratto di giovane come allegoria dell’Amicizia, o meglio, il ritratto di un giovane, anche se ancora non è nota — e forse mai lo sarà — la sua identità. Conosciamo però quella del suo autore, Mirabello Cavalori, famoso per aver lavorato sia in Palazzo Vecchio nello Studiolo di Francesco I, che agli apparati per le esequie di Michelangelo e a quelli per le nozze tra Francesco e Giovanna d’Austria, al fianco, tra gli altri, del pittore Girolamo Macchietti. Non vi è dubbio che tra i due ci fosse qualcosa di più profondo di un semplice sodalizio artistico (ebbero bottega insieme per diversi anni) poiché già Giorgio Vasari, che con loro lavorò, riporta che erano «amicissimi e compagni», mentre Vincenzo Borghini, filologo e storico della corte dei Medici, li descrisse, in un documento, così uniti da essere una cosa sola.
Ma chi erano questi due artisti che nella Firenze del secondo Cinquecento non si preoccupavano di nascondere i propri sentimenti? Le fonti riportano che entrambi, giovanissimi, si formarono nella bottega di Ridolfo del Ghirlandaio e fu lì che forse si conobbero. Mirabello e Girolamo – i cui profili artistici sono stati studiati, tra gli altri, da Larry Feinberg, Alessandra Giannotti, Marta Privitera e Alessandro Nesi — incontrarono il favore e l’amicizia del grande Benvenuto Cellini, la cui storia personale e giudiziaria non lascia dubbi sulle sue esplicite preferenze sessuali. Cellini li protesse e procurò loro diverse commissioni, tra cui a Macchietti quella per la pala dell’Adorazione dei Magi destinata alla cappella del marchese Pandolfo Lotteringhi della Stufa in San Lorenzo, e arrivò a dichiarare nel suo testamento di desiderare come decorazione per la propria tomba un’opera di Mirabello.
Il contesto storico nel quale questi uomini vissero era pieno di tensioni e di contraddizioni: il concetto di sodomia era spesso associato a quello di eresia, al tradimento e alla lesa maestà, ma allo stesso tempo già l’Umanesimo, con la riscoperta della classicità in tutte le sue declinazioni artistiche e letterarie, aveva favorito le esplorazioni di eterodossie sessuali, le letture di storie d’amore passionali tra persone dello stesso sesso vissute nell’antica Grecia e a Roma e la loro traduzione nelle arti, e incoraggiato la celebrazione del concetto di «amicizia intima» tra uomini e tra donne.
Firenze si trovava nell’occhio del ciclone. Basta ricordare che in molte zone dell’Europa, soprattutto in area germanica, «fiorentino» stava per «gay», in senso, naturalmente, dispregiativo. La pressione fu tale che il tribunale cittadino istituì nel 1432 l’Ufficio della Notte che perseguiva, insieme alla prostituzione, anche gli uomini che provavano pulsioni verso i «bei ragazzi». Il sentimento omoerotico era però diffuso in maniera così capillare in tutti gli strati sociali che all’inizio del Cinquecento l’Ufficio fu chiuso, pur restando la «sodomia» perseguibile per legge. Nella vita quotidiana la società imponeva una separazione tra i sessi e spesso gli omosessuali si proteggevano dagli scandali celando i propri legami amorosi o erotici dietro il concetto di «amicizia», intesa come vera e propria istituzione sociale, al pari della parentela e del matrimonio. Ed è in questa direzione che ci piace leggere quest’opera, tra le più curiose presentate alla mostra Il Cinquecento a Firenze, aperta al pubblico fino al prossimo 21 gennaio. Le grandi mostre non raccontano solo una storia, ma ne racchiudono molte. Ed è a Mirabello e a Girolamo, i pittori dello Studiolo, e a tutti gli uomini e le donne che nel passato furono costretti a velare il sentimento che li univa dietro la parola «amicizia», che dedichiamo queste righe. Siamo certi che ovunque essi siano, lontani nel tempo della storia, ma vivi grazie alla bellezza delle opere che ci hanno consegnato, possano guardare con orgoglio proprio verso quel Palazzo Vecchio in cui dipinsero opere straordinarie, e dove oggi tutti hanno la libertà di dichiarare quel loro stesso sentimento chiamandolo semplicemente, finalmente, soltanto amore.