DILETTANTI VERI O PER FINTA?
Il dilettante, secondo la definizione del vocabolario Treccani, è «chi coltiva un’arte, una scienza, uno sport non per professione, né per lucro, ma per piacere proprio». È difficile immaginare allora, leggendo i verbali dell’inchiesta che ha travolto una parte importante del calcio dilettantistico toscano, quale sia stato il «piacere» di presidenti, dirigenti e calciatori coinvolti. Perché truccare le partite, perché condizionare i verdetti del campo, se in quei campionati non ci dovrebbe essere «lucro» ma solo divertimento? Vincere, si sa, per alcuni è il «piacere» per eccellenza. Ma vincere barando non è certo il massimo. E allora, per sgomberare il campo dalle ipocrisie, potremmo cominciare col cambiare almeno il nome alla Lega dei campionati che vanno dalla serie D alla Promozione. Vero, non girano i milioni dei tornei professionistici, quelli tenuti in piedi dai diritti televisivi, ma un calciatore che guadagna fino a 2.000/3.000 euro al mese (in alcuni casi anche di più) è un dilettante o uno che tira calci a un pallone per mestiere? Dalle intercettazioni, al di là delle singole responsabilità su cui saranno chiamati a pronunciarsi i giudici ordinari e sportivi, emerge una zona grigia fatta di un nugolo di Moggi di periferia che, con i loro intrallazzi, cercano di mantenere piccole posizioni di potere. Una retrocessione, per esempio, può far perdere il diritto ad arrivare alla soglia del calcio che conta, cioè a quei tornei giovanili élite, frequentati anche da importanti procuratori. Vendere un ragazzino a un grande club può cambiare le sorti di una società di provincia: ma chi glielo dice alla Treccani che l’essere «dilettante» nel calcio ha altri significati?