Corriere Fiorentino

Addio colosso

Elogio di Fischer e dell’opera informe che ha diviso la città

- di Sergio Risaliti

Certi nomignoli, come merdone, fanno il giro della rete, ma sono una chiave per capire l’opera e chi la guarda Il bambino pasticcia la duttile materia senza pensare a modelli ideali; l’autore ha agito proprio come i bambini

Da domani la grande scultura di Urs Fischer sarà smontata e i cultori del bello ideale torneranno a godere l’assetto originale di Piazza Signoria. L’opera di Fischer non è arrivata per caso. La collocazio­ne di Big Clay#4 risponde a un progetto avviato due anni fa che ha visto come protagonis­ti prima Jeff Koons e poi Jan Fabre. Sarà importante continuare su questa strada per capire che la questione non è solo l’aggiorname­nto contempora­neo quanto l’attacco a certe forme di resistenza ideologica.

Abbiamo volutament­e occupato il centro dello spazio pubblico più rappresent­ativo della scultura figurativa monumental­e occidental­e, e lo abbiamo fatto con un’opera quasi del tutto informe. Le polemiche non sono mancate. Sono fisiologic­he. Questa volta, però, hanno intossicat­o l’etere, oscurando ogni ragionamen­to. Alcuni critici si sono limitati a termini come «discarica» e «cacata», abbassando il livello allo scatologic­o forse per esorcizzar­e il magmatico aspetto di quell’oggetto e la sua «irritante» monumental­ità. Tali aggettivaz­ioni, certi nomignoli — merdone — hanno fatto il giro della rete. Proprio quei termini sono una chiave per capire l’opera e chi la guarda. D’altronde anche Olympia di Manet, uno dei capolavori dell’arte moderna, venne stigmatizz­ata da certi accademici della critica abbassando­la a livello escrementi­zio.

Proverò a spiegare il senso dell’opera di Fischer e lo farò basandomi su argomentaz­ioni e confronti storico-artistici, ma non solo. Cominciamo dall’aspetto informe contrario a quello figurativo delle statue in Piazza. Serve immaginare un bambino che maneggia l’argilla. Poi dobbiamo pensare allo scultore tradiziona­le che modella la creta. La differenza tra loro consiste nella finalità del gesto. Il bambino pasticcia la duttile materia senza pensare a un modello ideale; non ha come punto di riferiment­o qualcosa da copiare, a meno che l’insegnante non lo guidi nell’esercizio. Avverte solo un indicibile piacere nel palpeggiar­e e nel veder sorgere strane fantasie dall’informe materia. L’artista rinascimen­tale pensa invece di essere un dio, anzi imita Dio, vuole plasmare un essere perfetto, identifica­ndolo in un se stesso che ipotizza sia fatto a immagine di Dio. Intende conciliare idealismo e naturalism­o, operando nei limiti del linguaggio figurativo. Tale cultura, o credenza, ha dominato nell’arte occidental­e fino al novecento. Da un secolo e più si sono, però, affermati il cubismo e l’astratto, l’informe e l’action painting, l’art brut e l’arte povera. L’informe, a esempio, «non è niente in sé, non ha altra esistenza che quella operatoria: è un performati­vo, come la parola oscena, la cui violenza non deriva dalla sua semantica quanto dall’atto stesso del dirla. L’informe è un’operazione». Qualcosa che è ricolmo di dolcezza e di violenza, un’operazione che sta tra un vulcano che erutta lava —per Bataille immagine corrispett­iva all’ano solare — e il gesto ingenuo di un bambino — immagine di un Prometeo che solidifica la materia del suo inconscio.

Urs Fischer agisce come un bambino. Plasma la materia senza avere come riferiment­o l’immagine dell’uomo in senso idealistic­o. La sua opera è il risultato ingigantit­o di un gesto di primaria manipolazi­one creativa. Osservando la superficie scopriamo le tracce dei polpastrel­li, la pressione delle dita, zone in cui l’artista ha scavato penetrando nella massa. L’artista ha dovuto poi escogitare un modo per impilare quella specie di informi polpette per farle stare in piedi. Ne è scaturita una forma convincent­e che suscita immagini non univoche. Il risultato è un colossale ammasso di forme informi, la cui natura oscilla tra più realtà, dimensioni, mondi. La fascinosa anodina bellezza di Big

Clay#4 dipende, principalm­ente, da questa apertura iconografi­ca, che è anche sospension­e del senso. Tutto dipende dalla proliferaz­ione di immagini generate da archetipi dell’inconscio che non hanno un forma definita, non corrispond­ono a immagini storicizza­te, quanto, piuttosto, a forze dell’inconscio, al formarsi in natura della materia primordial­e. Ciò che interessa non è se sia bella o meno in rapporto a canoni figurativi e accademici, ma cosa possiamo vederci senza categorie a priori. Big Clay#4 può essere un gigantesco meteorite, una concrezion­e cancerosa un totem tuberoso, una mostruosit­à escrementi­zia, un pupazzo scarabocch­iato, un prigione o un atlante ancora informe. In ogni caso è qualcosa di affascinan­te e di sporco a un tempo. Qualcosa che può essere accostato all’escrementi­zio, nel senso in cui lo ha definito Dubuffet — il padre dell’Art brut — che era affascinat­o dalla creatività dell’escremento, visto non come un artificio culturale, ma come un materiale puro. In questo senso, le forme originarie (Urform ) di Big Clay ci ricordano come manualità, plasticità, creatività siano più collegate al basso materialis­mo che all’idealismo, più allo scatologic­o che al teologico. Qualcosa di proibito e canceroso ha attaccato il classicism­o all’interno di quel recinto ideale che è Piazza Signoria con la sua bellissima Loggia. L’invasione di campo è risultata scioccante perché nel gesto artistico di Fischer non c’è alcuna «sintesi dialettica» per dirla con Yve-Alain Bois «ma la semplice interposiz­ione di un’oscenità nel castello di carte dell’estetica classica». Mentre tutto questo accadeva, in tanti passavano, guardavano e dicevano è «cacca».

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 ??  ?? «Big Clay #4» di Urs Fischer, in piazza della Signoria. A sinistra l’opera deturpata lo scorso 12 gennaio con una macchia di colore
«Big Clay #4» di Urs Fischer, in piazza della Signoria. A sinistra l’opera deturpata lo scorso 12 gennaio con una macchia di colore
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