Addio colosso
Elogio di Fischer e dell’opera informe che ha diviso la città
Certi nomignoli, come merdone, fanno il giro della rete, ma sono una chiave per capire l’opera e chi la guarda Il bambino pasticcia la duttile materia senza pensare a modelli ideali; l’autore ha agito proprio come i bambini
Da domani la grande scultura di Urs Fischer sarà smontata e i cultori del bello ideale torneranno a godere l’assetto originale di Piazza Signoria. L’opera di Fischer non è arrivata per caso. La collocazione di Big Clay#4 risponde a un progetto avviato due anni fa che ha visto come protagonisti prima Jeff Koons e poi Jan Fabre. Sarà importante continuare su questa strada per capire che la questione non è solo l’aggiornamento contemporaneo quanto l’attacco a certe forme di resistenza ideologica.
Abbiamo volutamente occupato il centro dello spazio pubblico più rappresentativo della scultura figurativa monumentale occidentale, e lo abbiamo fatto con un’opera quasi del tutto informe. Le polemiche non sono mancate. Sono fisiologiche. Questa volta, però, hanno intossicato l’etere, oscurando ogni ragionamento. Alcuni critici si sono limitati a termini come «discarica» e «cacata», abbassando il livello allo scatologico forse per esorcizzare il magmatico aspetto di quell’oggetto e la sua «irritante» monumentalità. Tali aggettivazioni, certi nomignoli — merdone — hanno fatto il giro della rete. Proprio quei termini sono una chiave per capire l’opera e chi la guarda. D’altronde anche Olympia di Manet, uno dei capolavori dell’arte moderna, venne stigmatizzata da certi accademici della critica abbassandola a livello escrementizio.
Proverò a spiegare il senso dell’opera di Fischer e lo farò basandomi su argomentazioni e confronti storico-artistici, ma non solo. Cominciamo dall’aspetto informe contrario a quello figurativo delle statue in Piazza. Serve immaginare un bambino che maneggia l’argilla. Poi dobbiamo pensare allo scultore tradizionale che modella la creta. La differenza tra loro consiste nella finalità del gesto. Il bambino pasticcia la duttile materia senza pensare a un modello ideale; non ha come punto di riferimento qualcosa da copiare, a meno che l’insegnante non lo guidi nell’esercizio. Avverte solo un indicibile piacere nel palpeggiare e nel veder sorgere strane fantasie dall’informe materia. L’artista rinascimentale pensa invece di essere un dio, anzi imita Dio, vuole plasmare un essere perfetto, identificandolo in un se stesso che ipotizza sia fatto a immagine di Dio. Intende conciliare idealismo e naturalismo, operando nei limiti del linguaggio figurativo. Tale cultura, o credenza, ha dominato nell’arte occidentale fino al novecento. Da un secolo e più si sono, però, affermati il cubismo e l’astratto, l’informe e l’action painting, l’art brut e l’arte povera. L’informe, a esempio, «non è niente in sé, non ha altra esistenza che quella operatoria: è un performativo, come la parola oscena, la cui violenza non deriva dalla sua semantica quanto dall’atto stesso del dirla. L’informe è un’operazione». Qualcosa che è ricolmo di dolcezza e di violenza, un’operazione che sta tra un vulcano che erutta lava —per Bataille immagine corrispettiva all’ano solare — e il gesto ingenuo di un bambino — immagine di un Prometeo che solidifica la materia del suo inconscio.
Urs Fischer agisce come un bambino. Plasma la materia senza avere come riferimento l’immagine dell’uomo in senso idealistico. La sua opera è il risultato ingigantito di un gesto di primaria manipolazione creativa. Osservando la superficie scopriamo le tracce dei polpastrelli, la pressione delle dita, zone in cui l’artista ha scavato penetrando nella massa. L’artista ha dovuto poi escogitare un modo per impilare quella specie di informi polpette per farle stare in piedi. Ne è scaturita una forma convincente che suscita immagini non univoche. Il risultato è un colossale ammasso di forme informi, la cui natura oscilla tra più realtà, dimensioni, mondi. La fascinosa anodina bellezza di Big
Clay#4 dipende, principalmente, da questa apertura iconografica, che è anche sospensione del senso. Tutto dipende dalla proliferazione di immagini generate da archetipi dell’inconscio che non hanno un forma definita, non corrispondono a immagini storicizzate, quanto, piuttosto, a forze dell’inconscio, al formarsi in natura della materia primordiale. Ciò che interessa non è se sia bella o meno in rapporto a canoni figurativi e accademici, ma cosa possiamo vederci senza categorie a priori. Big Clay#4 può essere un gigantesco meteorite, una concrezione cancerosa un totem tuberoso, una mostruosità escrementizia, un pupazzo scarabocchiato, un prigione o un atlante ancora informe. In ogni caso è qualcosa di affascinante e di sporco a un tempo. Qualcosa che può essere accostato all’escrementizio, nel senso in cui lo ha definito Dubuffet — il padre dell’Art brut — che era affascinato dalla creatività dell’escremento, visto non come un artificio culturale, ma come un materiale puro. In questo senso, le forme originarie (Urform ) di Big Clay ci ricordano come manualità, plasticità, creatività siano più collegate al basso materialismo che all’idealismo, più allo scatologico che al teologico. Qualcosa di proibito e canceroso ha attaccato il classicismo all’interno di quel recinto ideale che è Piazza Signoria con la sua bellissima Loggia. L’invasione di campo è risultata scioccante perché nel gesto artistico di Fischer non c’è alcuna «sintesi dialettica» per dirla con Yve-Alain Bois «ma la semplice interposizione di un’oscenità nel castello di carte dell’estetica classica». Mentre tutto questo accadeva, in tanti passavano, guardavano e dicevano è «cacca».