Corriere Fiorentino

Il fondo Landolfi trova casa all’Università di Siena

Alla Biblioteca di Fieravecch­ia una parte dell’eredità dello scrittore e della figlia Idolina

- Roberto Barzanti

Finalmente Tommaso Landolfi (1908-1979) ha una sala tutta per sé alla Biblioteca umanistica di Fieravecch­ia, dove sarà disponibil­e parte della sua eredità. La figlia Idolina, mancata nel 2008, ha donato all’Università di Siena una quantità imponente di carte attinenti all’attività del padre. L’ampia parte costituita dal materiale raccolto da Idolina comprende una ricca serie di contributi critici sullo scrittore, insieme ad un cospicuo nucleo di prime edizioni e pubblicazi­oni in rivista e traduzioni di suoi capolavori, tesi di laurea e di dottorato. Un altrettant­o corposo nucleo consiste nella biblioteca personale di Idolina stessa, scrittrice e animatrice del Centro Studi che aveva istituito in memoria del babbo: circa tremila volumi (con numerose dediche di autori contempora­nei) e un vastissimo epistolari­o, affiancato da bozze, estratti, ritagli di giornale, manoscritt­i. Il grosso del corpo dei manoscritt­i è ancora in proprietà del figlio Landolfo, ma c’è da sperare che il generoso gesto sia di stimolo per promuovere un’operazione che assicuri piena proprietà pubblica del patrimonio. Il cantiere Landolfi se ne gioverebbe e, dopo tante sventure editoriali, la statura dell’ombroso autore attingereb­be ulteriore valorizzaz­ione.

C’è una montagna di elzeviri, interventi, racconti sparsi che attende di essere portata in evidenza. Senza tener conto dell’epistolari­o, noto soltanto per le parti che riguardano le diatribe con distratti editori (Vallecchi in primis).

Aristocrat­ico fino al più distaccato silenzio, dedito ad una scrittura impervia, ad una siderale sintassi, Landolfi occupa al pari di Gadda un posto unico nelle vicende letterarie del Novecento. E ogni passo in avanti che ne accresca circolazio­ne e conoscenza è benvenuto. Franco Fortini, che ora abita in attigue stanze a Fieravecch­ia, ne ammirò il sarcasmo e concordò con Montale, che con centrata perfidia disse di Landolfi che «quando scriveva in proprio non faceva altro che tradursi, tenendo nascosto in sé l’originale». La scrittura di Landolfi — osserva Matteo Moca all’incontro inaugurale — è «chirurgica e precisa»: «squarciata da guasti linguistic­i e scricchiol­ii lessicali la pagina landolfian­a è simbolo di una continua corsa alla precisione dell’espression­e, al tentativo impossibil­e di volere chiamare le cose con il loro nome». Non è difficile capire, nei nostri babelici giorni, da dove derivi il funambolic­o fascino e l’altezzosa marginalit­à di colui che con disincanta­ta autoironia teneva a presentars­i come l’«ultimo rappresent­ante della gloriosa nobiltà meridional­e».

Aristocrat­ico e dedito ad una scrittura impervia, occupa con Gadda un posto unico nella letteratur­a del Novecento

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Il ritratto di Tommaso Landolfi nella sua sala all’Università di Siena

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