Il fondo Landolfi trova casa all’Università di Siena
Alla Biblioteca di Fieravecchia una parte dell’eredità dello scrittore e della figlia Idolina
Finalmente Tommaso Landolfi (1908-1979) ha una sala tutta per sé alla Biblioteca umanistica di Fieravecchia, dove sarà disponibile parte della sua eredità. La figlia Idolina, mancata nel 2008, ha donato all’Università di Siena una quantità imponente di carte attinenti all’attività del padre. L’ampia parte costituita dal materiale raccolto da Idolina comprende una ricca serie di contributi critici sullo scrittore, insieme ad un cospicuo nucleo di prime edizioni e pubblicazioni in rivista e traduzioni di suoi capolavori, tesi di laurea e di dottorato. Un altrettanto corposo nucleo consiste nella biblioteca personale di Idolina stessa, scrittrice e animatrice del Centro Studi che aveva istituito in memoria del babbo: circa tremila volumi (con numerose dediche di autori contemporanei) e un vastissimo epistolario, affiancato da bozze, estratti, ritagli di giornale, manoscritti. Il grosso del corpo dei manoscritti è ancora in proprietà del figlio Landolfo, ma c’è da sperare che il generoso gesto sia di stimolo per promuovere un’operazione che assicuri piena proprietà pubblica del patrimonio. Il cantiere Landolfi se ne gioverebbe e, dopo tante sventure editoriali, la statura dell’ombroso autore attingerebbe ulteriore valorizzazione.
C’è una montagna di elzeviri, interventi, racconti sparsi che attende di essere portata in evidenza. Senza tener conto dell’epistolario, noto soltanto per le parti che riguardano le diatribe con distratti editori (Vallecchi in primis).
Aristocratico fino al più distaccato silenzio, dedito ad una scrittura impervia, ad una siderale sintassi, Landolfi occupa al pari di Gadda un posto unico nelle vicende letterarie del Novecento. E ogni passo in avanti che ne accresca circolazione e conoscenza è benvenuto. Franco Fortini, che ora abita in attigue stanze a Fieravecchia, ne ammirò il sarcasmo e concordò con Montale, che con centrata perfidia disse di Landolfi che «quando scriveva in proprio non faceva altro che tradursi, tenendo nascosto in sé l’originale». La scrittura di Landolfi — osserva Matteo Moca all’incontro inaugurale — è «chirurgica e precisa»: «squarciata da guasti linguistici e scricchiolii lessicali la pagina landolfiana è simbolo di una continua corsa alla precisione dell’espressione, al tentativo impossibile di volere chiamare le cose con il loro nome». Non è difficile capire, nei nostri babelici giorni, da dove derivi il funambolico fascino e l’altezzosa marginalità di colui che con disincantata autoironia teneva a presentarsi come l’«ultimo rappresentante della gloriosa nobiltà meridionale».
Aristocratico e dedito ad una scrittura impervia, occupa con Gadda un posto unico nella letteratura del Novecento