«Una spilla sulla giacca Vuol dire: niente resa»
Stavolta niente maglietta. In Senato il dress code è rigidissimo: cravatta o non si entra. Ma Loris Rispoli e gli altri dell’«Associazione 140» non potevano arrivare al grande giorno senza un segno di riconoscimento. E allora è nata l’idea della spilla: «#iosono141: verità e giustizia sul Moby Prince». La indossano già dalle prime ore della mattina, chi sulla giacca, chi sullo scialle. È «il simbolo di chi non si arrende» spiega emozionato Rispoli, per tutti solo «Loris», alfiere della battaglia per la verità sul Moby che di mestiere fa l’impiegato alle Poste in centro a Livorno: «Mi hanno chiesto di spedirla in tutta Italia». Sognavano questa giornata da una vita, i parenti delle vittime di quella terribile notte. Da 27 anni, per la precisione. E lo si avverte fin da subito, dalle prime ore della mattina sul treno che porta la comitiva da Livorno a Roma. Direzione: Senato della Repubblica. Le anticipazioni della relazione finale della commissione d’inchiesta sono già su tutti i giornali nazionali: le prime verità su quella notte sono venute a galla e adesso la giustizia deve fare il resto per individuare i responsabili. Il clima è disteso, come non succedeva da anni. A Roma Rispoli e compagni si incontrano con Angelo e Luchino Chessa dell’associazione«10 aprile». La giornata è un turbinio di emozioni: consolazione, speranza ma anche rabbia. Molta. Alle 13 e 30, i parenti delle vittime escono dalla riunione con i commissari che hanno anticipato la relazione finale. L’«impreparazione» della capitaneria, gli errori dei magistrati dell’epoca, l’accordo tra i due armatori, le vite che si potevano salvare. «Mi sembrava di sognare — racconta Angelo Chessa, figlio del comandante della Moby — per anni si è detto di tutto su mio padre: adesso la commissione ha stabilito che il suo comportamento fu esemplare. Ora posso dire ai miei figli che hanno avuto un nonno tutto d’un pezzo». Tra i parenti delle vittime, però, le emozioni sono diverse. «Sono molto amareggiata — dice Stefania Giannotti, che sulla Moby perse il marito — non posso credere che quella notte molte vite potevano essere salvate: ho visto mio marito uscire sorridendo e non tornare mai più a casa». Nel pomeriggio il gruppo invade Palazzo Giustiniani, nella sala dove fu firmata la Costituzione italiana. A prendersi la scena è proprio Rispoli, che sulla Moby salutò per sempre la sorella Liana. Si schiarisce la voce, abbassa il microfono e tira fuori tutta la rabbia che ha accumulato in 27 anni di battaglie contro tutto e tutti. Lo prendevano per un matto visionario, adesso una commissione del Senato gli dà ragione su molte verità nascoste: «Ho portato con me uno striscione che dice: “verità e giustizia per 140 morti”. Non lo ripongo perché non siamo ancora arrivati alla verità. Questa è la strage più dimenticata d’Italia». Poi l’affondo nei confronti di Sergio Albanese, comandante della Capitaneria di Livorno all’epoca dei fatti: «In commissione ha detto di aver salvato la stagione turistica preoccupandosi del petrolio in mare, fregandosene dei morti. Ma vaffanculo». Un attimo di gelo e poi un applauso fragoroso di tutta la sala. «La verità — conclude Rispoli — non manca solo a noi familiari ma a tutto il Paese». Poi un sorriso, liberatorio, come non accadeva da 27 anni.