Corriere Fiorentino

IL SENSO DELLA VIA (DAL MEDIOEVO BUIO ALLA STREET ART)

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Mi scrive su Twitter una lettrice, chiedendo da dove partirei per esplorare via San Niccolò. La logica porterebbe a rispondere a botta certa di farlo dalla Porta verso la città, e la retorica potrebbe correrle in aiuto aggiungend­o «come un viandante d’altri tempi», la verità è opposta, e avendola testata centinaia di volte, poiché la rivista su cui mi sono fatto le ossa teneva le sue scalcinate riunioni a quell’Url di San Niccolò che ogni venerdì e domenica dovevo raggiunger­e dal centro, ho gli elementi per sostenerla.

La vera esperienza di via San Niccolò, che trascende i cambiament­i visti in questi 15 anni, comincia infatti in piazza dei Mozzi. Fin dall’abbocco della via, dominato dal truce Palazzo dei Mozzi, si capisce che qua saranno meno visibili i vari strati storici che Firenze ovunque semina: il Rinascimen­to, il ‘700, l’800, gli anni ‘50… No, qua c’è il Medioevo, e — con buon pace di LeGoff — è adeguatame­nte buio e incattivit­o. L’esperienza è lunga e immersiva, specie alla sera, e come è giusto quel tratto termina solo quando la strada si apre sull’unica isola di speranza plausibile nei Secoli Bui: una chiesetta, che ebbe peraltro il suo rilievo, essendo dedicata al santo che dà il nome alla via — San Nicola di Bari –, il quale nel medioevo aveva fedeli in tutta Europa, cosa che la poneva tra i primi luoghi di culto cittadini. Da lì le cose cambiano, e San Niccolò, facendosi d’un tratto contempora­nea (seconda tappa del tour: la terza sarà appunto la Porta, attorno alla quale torna ad affacciars­i Firenze), mostra il suo nuovo volto artsy e hipster… Quand’è poi, che le cose cambiano? Ai tempi della rivista, quando uscivamo dal circolo, fuori ci attendeva il buio, e solo arrivando verso via dei Macci cominciava a esserci un po’ di movimento… Oggi, al di là dei vodkodromi di Santa Croce, qui si risponde a un turismo più fino, alla ricerca di una contempora­neità che da noi è materia rara da sempre, e allora si potrà pensare quel che si vuole di certi street artist che fanno base da queste parti, ma che abbiano innescato un processo collettivo amato dai forestieri non c’è dubbio — il fatto, invece, che la gente ormai fotografi più uno sticker buffo che un bugnato del Trecento, è un altro paio di maniche.

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