IL PENSIERO CORTO DEI PARTITI SULLA SCUOLA SE CI SONO LE ELEZIONI
Caro direttore, che peso ha il tema della scuola nella campagna elettorale? Nonostante gli episodi di «malascuola», narrati quotidianamente dai giornali, non è particolarmente trattato nei dibattiti. Penso che alcune delle ragioni di questo scarso appeal siano le seguenti.
Anzitutto è una questione di approccio. Riformare la scuola significa distendere il pensiero su tempi lunghi e ragionare in ottica strategica, ma ciò è inadatto alla campagna elettorale che implica, per i politici nostrani, un’offerta per il presente, possibilmente d’impatto mediatico. Rivedere il sistema scolastico comporta pensare alle generazioni future e immaginare gli effetti del possibile cambiamento negli anni, ma ciò contrasta con l’esigenza di contare i voti. Altrove i politici non si appiattiscono sul presente, ma coltivano una visione rivolta a orizzonti lontani. Da noi invece la politica ha perso il suo valore simbolico che consiste nella capacità di «tratteggiare il futuro» (come suggerisce il sociologo Mauro Magatti). La questione dei tempi, in verità, non è nuova, anche nella prima Repubblica si registrava la stessa incapacità riformistica, causata dall’eccessiva mortalità e brevità dei governi che rendeva impossibile l’attuazione di riforme importanti come quella scolastica. La ricerca del vantaggio politico immediato, inoltre, ha oscurato il fatto che la cultura di una nazione è un bene comune da costruire nel tempo. Senza di essa non sono preservabili neppure gli altri beni collettivi, come quelli naturali o le opere d’arte. Senza di essa sarà difficile avere cittadini più rispettosi della legalità e civili, come dimostrano gli studi degli economisti sul capitale umano.
Il pensiero corto della politica ha anche l’effetto di inchiodarsi sulla logica delle «maggioranze di negazione». In Italia, come in tutte le società evolute, è difficile costituire maggioranze assolute «in favore» di qualcosa, mentre si registrano maggioranze schiaccianti «contro». È la storia dei referendum, dove gli oppositori hanno spesso avuto la meglio. Se le maggioranze sono relative, da lì nasce il problema della governabilità che è sotto i nostri occhi. La vicenda della scuola di questi ultimi decenni è paradigmatica. Nessuna riforma (o proposta di riforma) ha registrato un consenso così ampio da apparire maggioritario. Consapevoli di questo, tutti gli schieramenti politici adottano la posizione «contro», mostrando una fiera avversione alla legge sulla «Buona scuola» e riecheggiando le opposizioni sindacali. Ma se chiedessimo loro di definire una proposta «in favore», oltre a generiche e inattuabili boutade («Raddoppiare gli stipendi a tutti!» suggerisce la sinistra estrema), troveremmo poco. Infatti, se ve ne fosse una, non appena resa esplicita, provocherebbe reazioni iconoclastiche, che nella scuola sono ormai ricorrenti. Meglio attestarsi sul rifiuto sdegnato di ciò che è stato fatto. Paradossale che a una tale reazione si unisca anche il Pd, principale artefice della legge. Sembra che nessuno in quel partito sia in grado di riconoscere ciò che di buono è stato fatto e che, almeno parzialmente, è effetto della stessa legge.
Dal punto di vista della posizione «in favore», rileviamo che, seppur con molta prudenza, nei programmi appare il termine «meritocrazia», che parrebbe alludere a possibili riforme. Nella scuola che dà il voto agli studenti e che distingue chi è bravo da chi non lo è, il parametro del merito dovrebbe essere condiviso. Invece non lo è. I professori sono tutti eguali, sul piano della carriera e dello stipendio (salvo le distinzioni per anzianità). Non conta che i genitori la pensino diversamente, cercando di scegliere per i loro figli gli insegnanti e le scuole migliori. Ciò vale anche per i presidi, per i quali dovrebbero essere adottate forme corrette di valutazione del loro operato e conseguenti carriere. La nostra vita è contrassegnata dalla diversità dei servizi e dal diverso valore professionale delle persone con le quali interagiamo. Nella scuola tutto questo non ha spazio. Provate a chiedere ai politici se «meritocrazia» significa inaugurare forme di carriera per gli insegnanti e li sentirete tergiversare. Capirete così che «meritocrazia» è solo una parola nel mare di blandizie elettorali.
In conclusione noi presidi, che tra le varie dirigenze statali siamo quella più esposta a responsabilità e impegni lavorativi, tentiamo di essere ottimisti, se non altro per dovere d’ufficio. Speriamo ancora di poter ascoltare parole semplici e veritiere sulla scuola e non vorremmo concludere, con Pasolini, che «il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili».