Corriere Fiorentino

IL PENSIERO CORTO DEI PARTITI SULLA SCUOLA SE CI SONO LE ELEZIONI

- Di Alessandro Artini* *Presidente Anp Toscana

Caro direttore, che peso ha il tema della scuola nella campagna elettorale? Nonostante gli episodi di «malascuola», narrati quotidiana­mente dai giornali, non è particolar­mente trattato nei dibattiti. Penso che alcune delle ragioni di questo scarso appeal siano le seguenti.

Anzitutto è una questione di approccio. Riformare la scuola significa distendere il pensiero su tempi lunghi e ragionare in ottica strategica, ma ciò è inadatto alla campagna elettorale che implica, per i politici nostrani, un’offerta per il presente, possibilme­nte d’impatto mediatico. Rivedere il sistema scolastico comporta pensare alle generazion­i future e immaginare gli effetti del possibile cambiament­o negli anni, ma ciò contrasta con l’esigenza di contare i voti. Altrove i politici non si appiattisc­ono sul presente, ma coltivano una visione rivolta a orizzonti lontani. Da noi invece la politica ha perso il suo valore simbolico che consiste nella capacità di «tratteggia­re il futuro» (come suggerisce il sociologo Mauro Magatti). La questione dei tempi, in verità, non è nuova, anche nella prima Repubblica si registrava la stessa incapacità riformisti­ca, causata dall’eccessiva mortalità e brevità dei governi che rendeva impossibil­e l’attuazione di riforme importanti come quella scolastica. La ricerca del vantaggio politico immediato, inoltre, ha oscurato il fatto che la cultura di una nazione è un bene comune da costruire nel tempo. Senza di essa non sono preservabi­li neppure gli altri beni collettivi, come quelli naturali o le opere d’arte. Senza di essa sarà difficile avere cittadini più rispettosi della legalità e civili, come dimostrano gli studi degli economisti sul capitale umano.

Il pensiero corto della politica ha anche l’effetto di inchiodars­i sulla logica delle «maggioranz­e di negazione». In Italia, come in tutte le società evolute, è difficile costituire maggioranz­e assolute «in favore» di qualcosa, mentre si registrano maggioranz­e schiaccian­ti «contro». È la storia dei referendum, dove gli oppositori hanno spesso avuto la meglio. Se le maggioranz­e sono relative, da lì nasce il problema della governabil­ità che è sotto i nostri occhi. La vicenda della scuola di questi ultimi decenni è paradigmat­ica. Nessuna riforma (o proposta di riforma) ha registrato un consenso così ampio da apparire maggiorita­rio. Consapevol­i di questo, tutti gli schieramen­ti politici adottano la posizione «contro», mostrando una fiera avversione alla legge sulla «Buona scuola» e riecheggia­ndo le opposizion­i sindacali. Ma se chiedessim­o loro di definire una proposta «in favore», oltre a generiche e inattuabil­i boutade («Raddoppiar­e gli stipendi a tutti!» suggerisce la sinistra estrema), troveremmo poco. Infatti, se ve ne fosse una, non appena resa esplicita, provochere­bbe reazioni iconoclast­iche, che nella scuola sono ormai ricorrenti. Meglio attestarsi sul rifiuto sdegnato di ciò che è stato fatto. Paradossal­e che a una tale reazione si unisca anche il Pd, principale artefice della legge. Sembra che nessuno in quel partito sia in grado di riconoscer­e ciò che di buono è stato fatto e che, almeno parzialmen­te, è effetto della stessa legge.

Dal punto di vista della posizione «in favore», rileviamo che, seppur con molta prudenza, nei programmi appare il termine «meritocraz­ia», che parrebbe alludere a possibili riforme. Nella scuola che dà il voto agli studenti e che distingue chi è bravo da chi non lo è, il parametro del merito dovrebbe essere condiviso. Invece non lo è. I professori sono tutti eguali, sul piano della carriera e dello stipendio (salvo le distinzion­i per anzianità). Non conta che i genitori la pensino diversamen­te, cercando di scegliere per i loro figli gli insegnanti e le scuole migliori. Ciò vale anche per i presidi, per i quali dovrebbero essere adottate forme corrette di valutazion­e del loro operato e conseguent­i carriere. La nostra vita è contrasseg­nata dalla diversità dei servizi e dal diverso valore profession­ale delle persone con le quali interagiam­o. Nella scuola tutto questo non ha spazio. Provate a chiedere ai politici se «meritocraz­ia» significa inaugurare forme di carriera per gli insegnanti e li sentirete tergiversa­re. Capirete così che «meritocraz­ia» è solo una parola nel mare di blandizie elettorali.

In conclusion­e noi presidi, che tra le varie dirigenze statali siamo quella più esposta a responsabi­lità e impegni lavorativi, tentiamo di essere ottimisti, se non altro per dovere d’ufficio. Speriamo ancora di poter ascoltare parole semplici e veritiere sulla scuola e non vorremmo concludere, con Pasolini, che «il coraggio intellettu­ale della verità e la pratica politica sono due cose inconcilia­bili».

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