Una famiglia, due targhe E una guerra di vent’anni
IL CASO ACQUISIZIONE O DONAZIONE?
Dio con le parole ha fatto il mondo o, per dirla più semplicemente con Nanni Moretti, «le parole sono importanti» e la vicenda delle opere Contini Bonacossi lo dimostra. Decenni di polemiche, di guerre anche legali (la Procura di Firenze sequestrò le opere rimaste agli eredi per iniziativa di Elsa Giorgi, vedova di Sandrino Contini Bonacossi, nipote di Alessandro), di trattative tra gli eredi di Vittoria e Alessandro e lo Stato, di scontri con le istituzioni, sintetizzati da due lapidi e da due parole: «acquisizione» e «donazione». La prima, nella targa messa nel 1998 nei locali che ospitano i 144 pezzi passati dagli eredi allo Stato e agli Uffizi, la seconda nella targa in marmo originaria e che da qualche mese ha ripreso il posto della precedente. E che a marzo salirà di un piano, per entrare nel percorso principale degli Uffizi.
Riassumere una querelle decennale non è semplice, ma in sintesi — come racconta anche Sandro Pazzi nel libro La donazione dimenticata. L’incredibile vicenda della Collezione Contini Bonacossi — tutto nasce dal fatto che il desiderio espresso da Vittoria di donare nella loro unità i capolavori raccolti assieme al marito «per il godimento spirituale dei fiorentini e di tutti quelli che li vedono e li vedranno» e ripreso dal testamento di Alessandro, «i miei cari figli ben sanno come le mie intenzioni corrispondano in pieno a quello della loro adorata mamma, facendo tutto quanto sarà loro possibile per attuarle» non fu formalizzato in una volontà testamentaria. Iniziarono così le polemiche, con interrogazioni anche in Parlamento e articoli sulla stampa sul destino della collezione e sul rischio del suo smembramento. Il ministro Paolo Rossi, giurista, concluse che quello del testamento del senatore era solo «un desiderio e non una volontà testamentaria» e così si espressero poi Avvocatura e Consiglio di Stato, affermando la piena proprietà degli eredi sulla collezione di circa 1.000 pezzi costruita dai loro genitori. Nel 1957 il ministro Rossi nominò una commissione di esperti per «assicurare allo Stato le significative opere d’arte della collezione Contini Bonacossi di Firenze tramite un’eventuale transazione con gli eredi Contini».
Le cose andarono per le lunghe e alla fine nel 1968 si raggiunse l’accordo con la donazione per un valore di 3,5 miliardi e mezzo di lire, in cambio della libertà per i Contini Bonacossi e Papi di esportare e vendere le loro opere, fermo restando il diritto di prelazione dello Stato per i successivi 12 anni dalla donazione. La donazione chiariva che le opere erano destinate agli Uffizi, ma che provvisoriamente potevano stare anche a Palazzo Pitti, come fu a partire dal 1974, in locali della Meridiana, con la lapide marmeorea che recitava «Questa donazione alle Gallerie degli Uffizi è dovuta alla generosità e alla volontà di Alessandro e Vittoria Contini Bonacossi».
Ma quando nel 1998 il nuovo allestimento fu inaugurato agli Uffizi in via Lambertesca, la targa in marmo scomparve e fu sostituita da una con scritto «Collezione Contini Bonacossi acquisita dallo Stato e destinata agli Uffizi». Da qui la richiesta della sua rimozione, assieme alle accuse di invisibilità della collezione, accessibile sì ma solo con visita guidata e in locali distinti dal corpo della Galleria. Per Pazzi, legale dal 1964 delle famiglie Contini Bonacossi e Papi, appunto una «donazione dimenticata». Ma Per Eike Schimdt, al di là di polemiche e delle parole, «acquisire vuol dire venire in possesso e quindi comprende anche farlo attraverso una donazione», «la cosa più importante è che adesso queste opere uniche saranno disponibili, per noi e per le generazioni future».