Un’uscita a senso unico
Anche qui, come nella città labronica, la crisi viene da lontano. A partire dagli anni Settanta quando a Pisa si registrò una deindustrializzazione precoce e rapida. E gli operai diventarono in parte impiegati in una città di servizi (l’università, la Normale, la Sant’Anna, il Cnr, l’ospedale e l’aeroporto) e , in parte, anche commercianti. Con un turismo che fatica a decollare come potrebbe. «Oggi Pisa somiglia piuttosto a Strasburgo», sottolinea Guelfo Guelfi, protagonista del ’68 pisano. E Davide Guadagni, gran conoscitore della città e attuale portavoce del rettore dell’università Paolo Mancarella, aggiunge: «Pisa è diventata una città dal posto sicuro e ciò l’ha portata a sedersi, a diventare pigra. La classe dirigente di sinistra ha governato mediamente bene ma, salvo rari sprazzi, senza inventiva. Senza un progetto e una capacità di creare un nuovo modello economico e culturale».
Samuele Agostini, geologo del Cnr e pd non renziano, da anni denuncia l’immobilismo della sinistra pisana. Che ha occupato le poltrone delle molte aziende pubbliche, magari anche amministrando bene, ma finendo così, a torto o a ragione, per essere vista come una casta chiusa e immobile. Nel frattempo il collegamento del mondo del sapere con la politica e l’economia di Pisa si è fatto più debole e sfilacciato, osserva Emanuele Rossi, prorettore vicario del Sant’Anna. Due città in una. La cittadella del sapere e la città dei pisani sempre più vecchia, svuotata. Con problemi molto sentiti, come quello della sicurezza. Così in vista delle prossime elezioni comunali la posta in gioco è se la voglia e la necessità di cambiamento possono essere ancora interpretati dal centrosinistra oppure Pisa, come le altre città della costa — Grosseto, Livorno e Carrara — finirà per voltare pagina in una sorta di ’68 rovesciato.