Corriere Fiorentino

QUEL ROSARIO ANTISTORIC­O

- Di Riccardo Saccenti

Gli ultimi giorni di campagna elettorale sono stati segnati dal tentativo di alcune forze politiche di intercetta­re il voto dei cattolici. Lo si è fatto attraverso appelli e gesti che o ripropongo­no il tema della difesa delle «radici cristiane» del Paese o suggerivan­o una sovrapposi­zione fra Popolo di Dio e movimento politico. A Milano il leader della Lega, Matteo Salvini, ha giurato in piazza davanti al suo «popolo» sulla Costituzio­ne e i Vangeli, rosario in mano.

Si tratta di un modo di guardare al rapporto fra cattolices­imo e politica che fa riemergere un equivoco assai rischioso, un modello che la tradizione teologica del Novecento definiva «costantini­ano», che oggi ritorna in molte parti d’Europa, come dimostra il caso polacco, e che esprimeva una duplice tentazione: da parte della politica quella di fare della religione un instrument­um regni, uno strumento di consenso e di governo, e da parte della Chiesa quello di servirsi della politica per tutelare un primato sociale e culturale. La storia italiana ha visto la messa in discussion­e di questo schema con la nascita stessa della Repubblica, in ragione di una specifica funzione storica esercitata dal cattolices­imo democratic­o: una cultura politica che ha programmat­icamente distinto scelta di fede e appartenen­za politica e che ha, pur fra contraddiz­ioni e passaggi delicati, reso un servizio prezioso sia al Paese che alla Chiesa italiana. Quella tradizione, alla quale si deve il nucleo vitale della Costituzio­ne repubblica­na, seppe «democratiz­zare» un cattolices­imo italiano che era stato solidale con il fascismo e che si collocava nella prospettiv­a della costruzion­e di una società e di un sistema politico cristiani. A quella cultura politica si deve l’abbandono di uno schema che riduceva il cristianes­imo ad un programma sociale e faceva dell'insegnamen­to della Chiesa un codice etico a cui aderire. Quello sforzo culturale, oltre che politico, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, anticipò quanto la Chiesa nel suo insieme maturò con il Vaticano II: una netta distinzion­e fra religione e politica, che rendeva la prima più libera di essere fermento per la storia degli uomini e faceva la seconda pienamente responsabi­le delle scelte e del governo del secolo. Il cattolices­imo democratic­o ha incarnato tutto questo e disegnato un delicato ma vitale equilibrio fra l’ispirazion­e religiosa del credente e la costruzion­e della città degli uomini nella storia che necessaria­mente deve pensarsi come laica.

È in fondo questa responsabi­lità tutta politica e tutta laica che alcune settimane fa il presidente dei vescovi italiani, il fiorentino Gualtiero Bassetti, ha voluto ricordare invitando i partiti a pensare politicame­nte, cioè responsabi­lmente, alimentand­o la coscienza civile collettiva e non assecondan­do paure e timori. Di fronte a ogni tentativo di ridurre la fede a vessillo identitari­o e peggio ancora a criterio di adesione politica, è utile tornare al Concilio, che ha letto il principio di laicità come un cruciale segno dei tempi, che ha ricordato ai cristiani come la loro fede sia più che politica e proprio per questo libera e capace di mettere anche la politica di fronte alle proprie responsabi­lità e ai propri limiti. Di quel cattolices­imo democratic­o, che oggi non sembra trovare più spazio, ci parlano gli esempi di Giorgio La Pira e Aldo Moro, di cui fra poco cade l’anniversar­io dell’uccisione, i quali sono stati testimoni di una profonda laicità e libertà proprio perché profondame­nte credenti. E di tutto questo, in questa campagna elettorale fatta di violenza, insulti e odio, si nota in modo lampante l’assenza.

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