La nostra lingua? Si è formata così E con tanta fatica
Marco Biffi e un viaggio nella storia della nostra lingua dalle origini a oggi «Grazie alla tv e alla radio anche la casalinga ha avuto modo di imparare mentre stirava»
Che ci sia stato un tempo — più o meno lungo — in cui gli italiani non scrivevano e non parlavano in italiano è fatto noto. Certo, c’erano i «volgari», diventati poi dialetti. Ma una vera e propria lingua nazionale si è formata tardi. Molto più tardi di quello che si possa immaginare. Quando? «Ci sono — risponde Marco Biffi, presidente del corso di studio in Lettere dell’Università di Firenze e responsabile di sito e progetti multimediali dell’Accademia della Crusca — varie date di nascita: se si considera il distacco ufficiale dal latino nella direzione di una nuova identità linguistica, si può fare riferimento al Placito Capuano, nel X secolo; se invece consideriamo il raggiungimento di una varietà nazionale condivisa per lo scritto, dobbiamo andare avanti fino al 1612, con l’uscita della prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca; se infine pensiamo a un’unità linguistica strutturata, cioè a un italiano per tutti gli italiani, allora bisogna arrivare alla fine degli anni Settanta del Novecento». In quel periodo, infatti, secondo le statistiche, una percentuale rilevante di popolazione abbandona l’uso esclusivo del dialetto e parla l’italiano anche in famiglia. «Tutto ciò avviene soprattutto grazie alla televisione e alla radio, che diventano veicolo di trasmissione di un modello di lingua condiviso. Anche la casalinga, insomma, può imparare mentre stira».
Biffi di recente ha pubblicato per Franco Casati Editore un agile libro di 144 pagine — Viaggio nei tempi della lingua italiana — in cui analizza le tappe di un percorso di unificazione lungo, faticoso e per nulla scontato. «Fino a qualche tempo fa — racconta — c’erano pochissimi manuali di storia della lingua: si è sempre dato più importanza alla storia della letteratura. Che è cosa diversa. Adesso invece l’attenzione su questi temi è aumentata, lo dimostrano anche i tanti quesiti che arrivano via Internet o dai social network all’Accademia della Crusca». Quello del linguista fiorentino è, dunque, un testo di divulgazione alta, non rivolto solo agli studenti universitari. «Perché — sottolinea — capire come si è evoluto l’italiano ci può aiutare a interpretare meglio anche i cam- biamenti profondi del nostro Paese. E si dovrebbe fare già a partire dalle scuole superiori». Quello che emerge con chiarezza è che la lingua cambia con la società e la società con la lingua: un rapporto continuo, in cui l’una prende qualcosa dall’altra. Ed è semL’artista, pre stato così, in tutto il processo di formazione dell’italiano. Nel descriverne l’evoluzione Biffi traccia cinque periodi fondamentali: 476-960 (dalla fine dell’impero romano d’Occidente al Placito Capuano); 960-1612 (fino al Vocabolario degli Accademici della Crusca); 1612-1861 (fino all’Unità d’Italia); 1861-1980 (fino alla fine del boom economico); 1980-2017 (i primi quarant’anni dell’italiano globale).
La linea del tempo, insieme con le parole-simbolo dei vari periodi storici, sono tra le peculiarità di questo breve saggio. «Ho riscontrato che uno dei problemi delle nuove generazioni sta nel non avere consapevolezza di come gli eventi si siano susseguiti, anche rispetto a grosse àncore cronologiche: a volte gli studenti sbagliano di centinaia d’anni perfino la data dell’Unità d’Italia».
Se il punto di partenza è l’affrancamento dal latino, un discorso a parte va fatto per le influenze della Scuola poetica siciliana («la prima vera esperienza a largo raggio della poesia italiana») e, soprattutto, per quelle del fiorentino. «È innegabile — spiega Biffi — che, dal Trecento in poi, le cosiddette “Tre Corone”, Dante, Petrarca e Boccaccio, abbiano giocato un ruolo fondamentale nella formazione della lingua nazionale. È dimostrabile e dimostrato da tantissimi punti di vista, soprattutto se si analizza la storia come fatto sociale, economico, politico e culturale. C’è un riferimento continuo al fiorentino ed è un’adesione spontanea, dovuta al ruolo politico e commerciale di Firenze. In quegli anni ci sono tanti autori che guardano al fiorentino come lingua letteraria: si parla tanto della risciacquatura dei panni in Arno di Manzoni, ma lui è solo l’ultimo di tanti autori che hanno scritto in una lingua per poi ricalibrarla sul fiorentino, che, tra i volgari d’Italia, è quello strutturalmente più vicino al latino».
Il docente dell’Ateneo fiorentino, come si diceva, ha individuato per ogni secolo una parola chiave. Per gli anni Duemila ha scelto «post». «L’ho fatto — conclude — con rammarico. Perché racconta molte cose sia della lingua che della società in cui viviamo. Il “post” è diventato una delle tipologie testuali più diffuse e rappresenta un modo di comunicare breve, in un discorso frammentario e frammentato. È anche una parola rappresentativa del fatto che lessicalmente l’italiano si arricchisce, in modo sempre più passivo, di parole straniere. Tramite la Rete l’assorbimento è talmente rapido che un lemma non ha nemmeno il tempo di sedimentare: entra ed esce dai vocabolari. Il consumismo delle parole rende molto difficile, per esempio, il lavoro del lessicografo».
@mappamondo