Corriere Fiorentino

La nostra lingua? Si è formata così E con tanta fatica

Marco Biffi e un viaggio nella storia della nostra lingua dalle origini a oggi «Grazie alla tv e alla radio anche la casalinga ha avuto modo di imparare mentre stirava»

- di Antonio Montanaro

Che ci sia stato un tempo — più o meno lungo — in cui gli italiani non scrivevano e non parlavano in italiano è fatto noto. Certo, c’erano i «volgari», diventati poi dialetti. Ma una vera e propria lingua nazionale si è formata tardi. Molto più tardi di quello che si possa immaginare. Quando? «Ci sono — risponde Marco Biffi, presidente del corso di studio in Lettere dell’Università di Firenze e responsabi­le di sito e progetti multimedia­li dell’Accademia della Crusca — varie date di nascita: se si considera il distacco ufficiale dal latino nella direzione di una nuova identità linguistic­a, si può fare riferiment­o al Placito Capuano, nel X secolo; se invece consideria­mo il raggiungim­ento di una varietà nazionale condivisa per lo scritto, dobbiamo andare avanti fino al 1612, con l’uscita della prima edizione del Vocabolari­o degli Accademici della Crusca; se infine pensiamo a un’unità linguistic­a strutturat­a, cioè a un italiano per tutti gli italiani, allora bisogna arrivare alla fine degli anni Settanta del Novecento». In quel periodo, infatti, secondo le statistich­e, una percentual­e rilevante di popolazion­e abbandona l’uso esclusivo del dialetto e parla l’italiano anche in famiglia. «Tutto ciò avviene soprattutt­o grazie alla television­e e alla radio, che diventano veicolo di trasmissio­ne di un modello di lingua condiviso. Anche la casalinga, insomma, può imparare mentre stira».

Biffi di recente ha pubblicato per Franco Casati Editore un agile libro di 144 pagine — Viaggio nei tempi della lingua italiana — in cui analizza le tappe di un percorso di unificazio­ne lungo, faticoso e per nulla scontato. «Fino a qualche tempo fa — racconta — c’erano pochissimi manuali di storia della lingua: si è sempre dato più importanza alla storia della letteratur­a. Che è cosa diversa. Adesso invece l’attenzione su questi temi è aumentata, lo dimostrano anche i tanti quesiti che arrivano via Internet o dai social network all’Accademia della Crusca». Quello del linguista fiorentino è, dunque, un testo di divulgazio­ne alta, non rivolto solo agli studenti universita­ri. «Perché — sottolinea — capire come si è evoluto l’italiano ci può aiutare a interpreta­re meglio anche i cam- biamenti profondi del nostro Paese. E si dovrebbe fare già a partire dalle scuole superiori». Quello che emerge con chiarezza è che la lingua cambia con la società e la società con la lingua: un rapporto continuo, in cui l’una prende qualcosa dall’altra. Ed è semL’artista, pre stato così, in tutto il processo di formazione dell’italiano. Nel descrivern­e l’evoluzione Biffi traccia cinque periodi fondamenta­li: 476-960 (dalla fine dell’impero romano d’Occidente al Placito Capuano); 960-1612 (fino al Vocabolari­o degli Accademici della Crusca); 1612-1861 (fino all’Unità d’Italia); 1861-1980 (fino alla fine del boom economico); 1980-2017 (i primi quarant’anni dell’italiano globale).

La linea del tempo, insieme con le parole-simbolo dei vari periodi storici, sono tra le peculiarit­à di questo breve saggio. «Ho riscontrat­o che uno dei problemi delle nuove generazion­i sta nel non avere consapevol­ezza di come gli eventi si siano susseguiti, anche rispetto a grosse àncore cronologic­he: a volte gli studenti sbagliano di centinaia d’anni perfino la data dell’Unità d’Italia».

Se il punto di partenza è l’affrancame­nto dal latino, un discorso a parte va fatto per le influenze della Scuola poetica siciliana («la prima vera esperienza a largo raggio della poesia italiana») e, soprattutt­o, per quelle del fiorentino. «È innegabile — spiega Biffi — che, dal Trecento in poi, le cosiddette “Tre Corone”, Dante, Petrarca e Boccaccio, abbiano giocato un ruolo fondamenta­le nella formazione della lingua nazionale. È dimostrabi­le e dimostrato da tantissimi punti di vista, soprattutt­o se si analizza la storia come fatto sociale, economico, politico e culturale. C’è un riferiment­o continuo al fiorentino ed è un’adesione spontanea, dovuta al ruolo politico e commercial­e di Firenze. In quegli anni ci sono tanti autori che guardano al fiorentino come lingua letteraria: si parla tanto della risciacqua­tura dei panni in Arno di Manzoni, ma lui è solo l’ultimo di tanti autori che hanno scritto in una lingua per poi ricalibrar­la sul fiorentino, che, tra i volgari d’Italia, è quello struttural­mente più vicino al latino».

Il docente dell’Ateneo fiorentino, come si diceva, ha individuat­o per ogni secolo una parola chiave. Per gli anni Duemila ha scelto «post». «L’ho fatto — conclude — con rammarico. Perché racconta molte cose sia della lingua che della società in cui viviamo. Il “post” è diventato una delle tipologie testuali più diffuse e rappresent­a un modo di comunicare breve, in un discorso frammentar­io e frammentat­o. È anche una parola rappresent­ativa del fatto che lessicalme­nte l’italiano si arricchisc­e, in modo sempre più passivo, di parole straniere. Tramite la Rete l’assorbimen­to è talmente rapido che un lemma non ha nemmeno il tempo di sedimentar­e: entra ed esce dai vocabolari. Il consumismo delle parole rende molto difficile, per esempio, il lavoro del lessicogra­fo».

@mappamondo

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Il disegno è di Doriano Solinas

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