MA «PIÙ CARCERE» NON SIGNIFICA AVERE PIÙ SICUREZZA
Caro direttore, la settimana scorsa si è consumata una pagina triste nel nostro Paese. Dopo anni di studi si era giunti, in attuazione della delega per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, alla predisposizione di un testo ampiamente condiviso, frutto del lavoro di una commissione ministeriale (di cui uno degli scriventi fa parte), fatta di accademici, magistrati e avvocati: ma a un passo dal traguardo, il Consiglio dei ministri ha rinviato l’approvazione dei decreti attuativi al dopo-elezioni, di fatto sine die. Il timore è che si tratti di un affossamento definitivo. Non ci occupiamo, qui, delle ragioni della scelta del Governo: vogliamo invece spiegare perché si tratti di una riforma indispensabile, che aumenterebbe non solo il grado di civiltà delle carceri, ma soprattutto la sicurezza dei cittadini. Un’insopportabile vulgata — propagandata dalle forze politiche che cavalcano il sentimento di insicurezza dei cittadini – vuole che dai delitti ci si difenda solo col carcere: pene sempre più elevate, in un parossismo sanzionatorio senza fine, in una logica medievale secondo cui la pena dovrebbe servire solo a porre il reo in condizioni di non nuocere più. Più lunga la pena, maggiore la sicurezza: così che, di fatto, la più efficace misura per garantire i cittadini consisterebbe nell’eliminazione stessa del reo o nella sua separazione dal corpo sociale per il resto dei giorni. Pazienza se tutto ciò è platealmente contrario alla funzione della pena come disegnata dalla Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione, non può essere strumento di segregazione sociale. Ma cosa c’è realmente dentro questa riforma? Si dice che porterà a svuotare le carceri e a riversare per strada orde di delinquenti. È una sciocchezza. La riforma non innalza il limite di pena per l’accesso alle misure alternative, già innalzato con leggi precedenti: il problema è che quegli interventi non erano stati armonizzati con altri istituti, e ciò ha creato una serie di inconvenienti per i quali si è dovuto persino ricorrere alla Corte Costituzionale. Da un altro punto di vista, la legge elimina alcuni automatismi che impediscono l’accesso alle misure alternative a talune categorie di condannati, ma non tocca i divieti pressoché assoluti di concessione per reati di mafia o terrorismo (anche se in ciò a parere di molti, compresi i penalisti, la riforma è persino troppo timida). Chi dice che con la riforma usciranno i boss dice il falso. L’eliminazione delle preclusioni risponde al principio che deve essere il Giudice a scegliere caso per caso. La riforma non presenta alcun carattere di clemenza o buonismo: è anzitutto un intervento di ammodernamento di un sistema irrazionale, e se è vero che offre di più ai condannati, è vero che pretende assai di più. Lo fa sulla base di un’evidenza documentata da studi condotti a ogni latitudine: che il carcere, specie se degradante e sovraffollato, non produce maggiore sicurezza. A chi invoca l’esigenza di inflessibili detenzioni carcerarie, occorrerebbe ricordare che è dimostrato (da statistiche ufficiali) che chi sconta una pena esclusivamente carceraria ha probabilità 3 volte superiori di commettere un nuovo reato rispetto a chi espia la pena in regime alternativo. Puntare su misure alternative non è dunque solo più giusto: è anche (cinicamente, se si vuole) infinitamente più efficace per rendere più sicura la società.