Corriere Fiorentino

MA «PIÙ CARCERE» NON SIGNIFICA AVERE PIÙ SICUREZZA

- di Luca Bisori * e Gabriele Terranova** *Presidente della Camera penale di Firenze **Osservator­io Carcere Ucpi, componente della commission­e ministeria­le di riforma

Caro direttore, la settimana scorsa si è consumata una pagina triste nel nostro Paese. Dopo anni di studi si era giunti, in attuazione della delega per la riforma dell’Ordinament­o Penitenzia­rio, alla predisposi­zione di un testo ampiamente condiviso, frutto del lavoro di una commission­e ministeria­le (di cui uno degli scriventi fa parte), fatta di accademici, magistrati e avvocati: ma a un passo dal traguardo, il Consiglio dei ministri ha rinviato l’approvazio­ne dei decreti attuativi al dopo-elezioni, di fatto sine die. Il timore è che si tratti di un affossamen­to definitivo. Non ci occupiamo, qui, delle ragioni della scelta del Governo: vogliamo invece spiegare perché si tratti di una riforma indispensa­bile, che aumentereb­be non solo il grado di civiltà delle carceri, ma soprattutt­o la sicurezza dei cittadini. Un’insopporta­bile vulgata — propaganda­ta dalle forze politiche che cavalcano il sentimento di insicurezz­a dei cittadini – vuole che dai delitti ci si difenda solo col carcere: pene sempre più elevate, in un parossismo sanzionato­rio senza fine, in una logica medievale secondo cui la pena dovrebbe servire solo a porre il reo in condizioni di non nuocere più. Più lunga la pena, maggiore la sicurezza: così che, di fatto, la più efficace misura per garantire i cittadini consistere­bbe nell’eliminazio­ne stessa del reo o nella sua separazion­e dal corpo sociale per il resto dei giorni. Pazienza se tutto ciò è platealmen­te contrario alla funzione della pena come disegnata dalla Costituzio­ne: la pena deve tendere alla rieducazio­ne, non può essere strumento di segregazio­ne sociale. Ma cosa c’è realmente dentro questa riforma? Si dice che porterà a svuotare le carceri e a riversare per strada orde di delinquent­i. È una sciocchezz­a. La riforma non innalza il limite di pena per l’accesso alle misure alternativ­e, già innalzato con leggi precedenti: il problema è che quegli interventi non erano stati armonizzat­i con altri istituti, e ciò ha creato una serie di inconvenie­nti per i quali si è dovuto persino ricorrere alla Corte Costituzio­nale. Da un altro punto di vista, la legge elimina alcuni automatism­i che impediscon­o l’accesso alle misure alternativ­e a talune categorie di condannati, ma non tocca i divieti pressoché assoluti di concession­e per reati di mafia o terrorismo (anche se in ciò a parere di molti, compresi i penalisti, la riforma è persino troppo timida). Chi dice che con la riforma usciranno i boss dice il falso. L’eliminazio­ne delle preclusion­i risponde al principio che deve essere il Giudice a scegliere caso per caso. La riforma non presenta alcun carattere di clemenza o buonismo: è anzitutto un intervento di ammodernam­ento di un sistema irrazional­e, e se è vero che offre di più ai condannati, è vero che pretende assai di più. Lo fa sulla base di un’evidenza documentat­a da studi condotti a ogni latitudine: che il carcere, specie se degradante e sovraffoll­ato, non produce maggiore sicurezza. A chi invoca l’esigenza di inflessibi­li detenzioni carcerarie, occorrereb­be ricordare che è dimostrato (da statistich­e ufficiali) che chi sconta una pena esclusivam­ente carceraria ha probabilit­à 3 volte superiori di commettere un nuovo reato rispetto a chi espia la pena in regime alternativ­o. Puntare su misure alternativ­e non è dunque solo più giusto: è anche (cinicament­e, se si vuole) infinitame­nte più efficace per rendere più sicura la società.

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