Parole, social e manifesti Ecco cosa ci resterà
Vota come parli, verrebbe da dire. Anche se «Berlusconi quando parla mi sembra Berlinguer» e «il massimo delle parole che riescono a mettere in campo i nostri politici sono ambigue e di poco peso». Due pareri rispettivamente di Claudio Marazzini, presidente della Crusca, e David Riondino. «Si usa la parola impresentabile non più per indicare i pregiudicati, ma anche quelli che non vorresti mai portare a pranzo da tuo zio a Natale» e «l’Europa, come il fascismo e l’antifascismo, non significano più quello che volevano dire un tempo, sono diventate semplici trincee su cui dividerci al bar». Il cantautore fiorentino è — linguisticamente — costernato: «Salvini schematico e apodittico, Berlusconi alfiere di un italiano arcaico involuto da vecchio stizzito, Renzi da venditore di pentole», è proprio vero, sorride lui, «che i politici somigliano al lessico che usano». Ma la campagna elettorale ci lascia anche qualche buona notizia: «Di congiuntivi sbagliati non ne ho più sentiti, ormai la grammatica la studiano tutti» si congratula il professore dalla Crusca. E contrapposizioni inedite: «Ad analizzare il linguaggio, il vero opposto di Renzi sembrerebbe il suo ministro dell’Interno, Minniti: tanto astratto e sognante l’uno quanto concreto fino a voler mettere i numeretti a ogni paragrafo di pensiero l’altro». Per il cantautore invece il rapporto tra politica e linguaggio ci lascia alcune parole nuove come «flat tax», «non l’avevo mai sentita prima, come fu per lo spread un tempo, ora invece siamo diventati tutti esperti di entrambe» e alcune parole vecchie che però diventano nuove per i significati che assumono: «Un tempo si diceva che un candidato era paracadutato, usando una metafora, ora la Boschi sembra davvero essere stata lanciata in un mondo alieno, l’Alto Adige, di cui non sa nulla, e non aspetto altro che a un certo punto chieda agli alpini se si trovano bene sulle Ande. Credo sia la vera vittima di queste elezioni». Si gioca, si scherza, ma si fa anche sul serio: «Il linguaggio politico è piuttosto omogeneo verso il mediobasso italiano, nessuno usa frasi con più di tre coordinate, la qualità delle parole va di pari passo alla qualità dei nostri rappresentanti». E così ci rassegniamo all’assuefazione da «tortura del linguaggio». Nel senso che, spiega Marazzini, «parole come fascismo e antifascismo, di cui si fa largo uso, assumono un significato diverso a seconda di chi le usa, hanno subito un allargamento semantico, ognuno le appiccia ai comportamenti dei propri avversari per identificare ciò che non ci piace». Sono parole «disarmoniche» come da definizione cruscante. Ma nulla di nuovo, avverte il prof: «Valeva anche per la parola democrazia. Ce ne sono tante diverse e da sempre ognuno dà la patente di democratico a ciò che più gli somiglia».
Altri sensi Antifascismo e fascismo hanno altri significati: identificano ciò che non ci piace