Memorie corte, da repubblica di Photoshop
«Io non temo le loro idee, ma le loro facce». È stato forse in ragione di questo fulminante aforisma di Leo Longanesi che fino agli anni ’90 i volti dei candidati facevano solo di rado la loro comparsa nei manifesti elettorali. La «repubblica di Photoshop» era lontana e l’avvenenza fisica non era un requisito essenziale per un politico, tanto che un deputato socialdemocratico poté essere rieletto per più legislature nonostante che il suo aspetto poco rassicurante avesse indotto i detrattori ad adattare a lui la celebre frase di Hobbes: homo homini Lupis. In questo eravamo molti decenni indietro rispetto agli Stati Uniti, dove già alle presidenziali del 1960 Nixon aveva perso di stretta misura con Kennedy perché si era presentato al confronto televisivo senza essersi rifatto la barba cancellando quella che gli inglesi chiamano «l’ombra delle five o’ clock». Se la miglior caricatura di ciascuno di noi, come sosteneva Eco, è la fototessera, magari ritoccata, figuriamoci un manifesto elettorale. Le quasi ventennali fortune politiche di uno storico esponente della destra fiorentina sono dovute, secondo i maligni, alla scelta di non presentarsi ai potenziali elettori con la sua immagine sui manifesti.
Se proprio dei politici dovevano figurare sui tabelloni elettorali, questi erano semmai personaggi del passato, di cui partiti ancora radicati nella storia si contendevano l’eredità. Sono arcinote le vicende dell’appropriazione di Garibaldi da parte del Fronte popolare; meno conosciuto è il manifesto con cui negli anni ’60 il Partito democratico di unità monarchica contendeva al Pli l’eredità del «Tessitore»: «Il liberale Cavour voterebbe Stella e Corona». In occasione del referendum abrogativo della legge sul divorzio, il comitato promotore tentò un singolare «furto d’immagine» ai danni del Pci, schieratosi sul fronte del «no». Vennero affissi grandi manifesti con la foto di Togliatti e sotto un estratto del suo intervento alla Costituente, in cui aveva definito la questione del divorzio «innaturale, anzi dannosa in relazione alle attuali esigenze della società italiana». Ma il Pci non incassò sportivamente il colpo e ottenne con procedura d’urgenza la defissione dei manifesti, ordinata da un pretore fiorentino.
Se dalle immagini si passa agli slogan, la storia dei manifesti presenta molte altre sorprese. Nelle elezioni comunali fiorentine del 1990 un giovane candidato Dc per decantare il suo operoso attivismo scelse come motto sui manifesti «le vie di fatto», senza sapere che passare alle vie di fatto significa venire alle mani. Questo non gl’impedì di essere eletto, di passare al Parlamento due anni dopo e poi d’intraprendere una brillante carriera di manager e dirigente pubblico. Sempre a proposito di slogan, non sono infrequenti i casi di «abigeato» fra uno schieramento e l’altro, anche perché niente è più inedito della carta patinata dei manifesti. Negli anni ’80, quando già si presagiva Tangentopoli, Almirante si presentava agli elettori col motto «Noi possiamo guardarti negli occhi». La Meloni l’ha riesumato per questa campagna elettorale e qualcuno ha fatto dell’ironia: «Da Giorgio a Giorgia». Peccato che questo slogan sia molto simile a quello — «Un candidato da guardare negli occhi» — con cui nel 1999 Leonardo Domenici si presentò alle amministrative fiorentine, non senza una sottile perfidia nei confronti del suo antagonista Scaramuzzi, che portava gli occhiali.
Se la cosa può consolare, l’abigeato di motti non è un fenomeno solo italiano. Nemmeno lo slogan «America First», cavallo di battaglia di Trump, è originale: riprende il nome del comitato «America First», fondato nel 1940 all’università di Yale per contrastare la politica interventista del presidente Roosevelt. Ne fu animatore Charles Lindberg, che fu accusato di filonazismo e dovette rinunciare al grado di colonnello dell’Aeronautica, lui che per primo aveva trasvolato l’Atlantico. Questo non ha impedito a Trump di vincere le elezioni, forse perché gli americani hanno una memoria storica ancora più breve della nostra.