Le impressioni del tifoso (i poeti, il senso della fine)
DIARIO DI UN TIFOSO DA DOMENICA A DOMENICA
Da quando lui se ne è andato, il tempo si è fermato: sembrava non dovesse passare più. La morte di Davide Astori, il capitano viola, è piombata improvvisa su Firenze (e poi, pian piano, su tutta l’Italia) la mattina di domenica 4 marzo, giorno votato alle elezioni nazionali. Ognuno l’ha saputo per caso, in varie faccende affaccendato. Io per esempio, ero appena uscito dal seggio dove avevo votato, e mi ero fermato in un bar di via Pisana. Mi ha informato Gabriella, una vivace cassiera, molto appassionata della Fiorentina. Ha letto un messaggio sul telefonino, ha sussultato incredula, e mi ha subito informato, sgomenta : «Dicono che è morto Astori. Speriamo che sia una falsa notizia, ne girano parecchie in rete». E invece l’illusione che fosse un inganno è durata pochi minuti. Il giovane Davide se ne era andato nel sonno tradito dai battiti sempre più lenti del cuore.
È cominciata così la settimana del lutto. L’ingresso delle tribune allo stadio si è presto trasformato in una sorta di muro del pianto, fatto di sciarpe viola e di fiori colorati. Senza incertezze, spinta dai tanti giocatori che conoscevano Astori, si è fermata tutta la serie A , segnale chiaro ,netto, e rarissimo. È iniziata una settimana oscura per la città di Firenze, intristita e sorpresa anche da un altro fatto tragico, l’assassinio di Idy, ambulante senegalese, freddato senza pietà e senza movente da un uomo bianco armato sul Ponte Vespucci.
I due eventi non hanno ovviamente rapporto fra loro, ma entrambi hanno spinto la nostra comunità al pianto e alla rabbia. In compenso sono arrivati messaggi di solidarietà da tutta Italia e anche dal resto del mondo. Ai funerali solenni nella gremitissima piazza Santa Croce sono venute molte delegazioni delle squadre rivali, a cominciare dall’arcinemica Juventus, guidata dal comandante Buffon e da un commosso Chiellini, per una volta senza la grinta del superstopper picchiatore. Tutti sono stati caldamente applauditi, come se la conoscenza ancora viva del dolore, rendesse tutti più umani, meno selvaggi.
Domani sarà un altro giorno. Probabilmente sul campo i prepotenti guerrieri bianconeri torneranno ad essere clamorosamente fischiati, ad ogni mossa. Ma forse questo momento di pausa dal clamore del tifo non è stato vano, qualcosa resterà nella mente e nell’anima. Messaggi belli e commoventi sono venuti da tantissimi giocatori, dai compagni di squadra di oggi e di ieri, a conferma che,al di là del campo da gioco, questo ragazzo intorno ai trent’anni quasi incredibilmente scomparso, doveva essere un uomo eccezionale, di profonda e buona sensibilità. Fra i volti stravolti visti in Santa Croce mi ha ad esempio colpito quello del sempre furente De Rossi, centrocampista guida della Roma e della Nazionale. Il fatto che nella capitale Astori non si fosse calcisticamente ambientato (per fortuna della Fiorentina che prese l’occasione al volo, spinto anche dall’entusiasmo per Firenze del giocatore) è solo un dettaglio senza importanza, l’amicizia nata con gli allora compagni di squadra, era ed è restata fortissima.
Così fra pianti e rimpianti, siamo arrivati a ieri mattina, domenica 11, di nuovo in campo, a un ‘ora insolita, alle 12 e mezzo, separati dalle altre gare. Non era facile giocare con le lacrime agli occhi.
Prima della partita il prologo è stato solenne. Una canzone di Jovanotti, Terra degli uomini, sparata in video nell’attesa. Non era stata scelta a caso, ma per alcuni versi sospesi fra la malinconia e una fragile speranza: «Sono sempre i migliori che partono/ ci lasciano senza istruzioni…. E sotto i miei piedi c’è un baratro/ e sulla mia testa c’ho gli angeli/ e qui siamo proprio nel mezzo nella terra degli uomini…. Dove suona la musica / nella terra degli uomini / sino all’ultimo attimo».
Poi quando arbitri e giocatori sono scesi in campo, c’è stato un minuto di silenzio, lungo e totale, come i ricordi che si rincorrevano. Infine si è cominciato a giocare, non senza qualche scatto, pungente ma vano, del verde Simeone, Cholito impaziente. Ma tutti aspettavano il minuto numero 13, il numero della maglia dal capitano perduto, per una nuova, più solenne celebrazione. La curva Fiesole riempita di striscioni e sciarpe e un volo di palloncini colorati spediti alti verso il cielo. Subito dopo, spinti dall’amore nostalgico per il capitano, i viola hanno giocato con una buona spinta. Ed è arrivato il gol, per un gioco del destino segnato di testa su corner (alla Astori) dalla sua prima riserva, il brasiliano Vitor Hugo.
Nel secondo tempo , la Fiorentina è sembrata esausta, come se le forze fisiche e nervose si fossero bruciate in una gran fiammata. Nonostante una traversa e qualche occasione sprecata dai viola, l’onesto Benevento, ultimo in classifica con fiera dignità, poteva anche pareggiare. Ma francamente io pensavo ad altro. Mi tornavano in mente altre sciagure che hanno travolto (ma più lentamente rispetto ad Astori) alcuni nostri campioni. A cominciare da quelli del primo scudetto (ho l’età per ricordare bene): il favoloso Montuori ad esempio che si vide la carriera troncata a meno di 30 anni, preso in pieno viso da una pallonata e se ne andò, povero, da molti dimenticato, non aiutato da nessuno. O Armando Segato, mediano impeccabile, bruciato a 40 annida un tumore cattivo. Mi sono tornati in mente i nomi dei calciatori anni settanta, morti troppo presto, non senza suscitare brutti sospetti. O per venire a giorni più recenti, la sorte atroce dell’agile Borgonovo, consumato dalla Sla, e portato un’ ultima volta in lettiga sul campo, tenuto per mano da Roberto Baggio, un altro campione dal cuore buono.
Non ricordo però niente di simile, al silenzioso e fulminante addio di Davide, il capitano che amava Fiorenze e la Fiorentina, e qua voleva restare insieme alla sua compagna e alla figlia bambina. Certo, anche giocatori di altre squadre, dal Perugia al Livorno, sono morti folgorati sotto sforzo, mentre giocavano. Ma questa fine, a tradimento, in un «letto straniero», a Udine mentre dormiva dopo una tranquilla serata di ritiro, viene voglia di negarla come non vera, come impossibile. Mi viene la tentazione di riprendere in mano un libro e consolarmi col vecchio Philiph Marlowe, quando alla fine di un’indagine pericolosa, mormora quasi da solo «Arrivederci amico, non vi dico addio. Vi dissi addio in un momento di tristezza e di solitudine quando sembrava definitivo». Perché secondo i poeti ci sono momenti in cui la parola fine proprio non si concepisce.
Questo momento di pausa dal clamore del tifo forse non è stato vano, qualcosa resterà nella mente e nell’anima