Corriere Fiorentino

Medicine e bellezza

La scoperta della Toscana e la scuola al Meyer nel diario del piccolo Simone

- di Giulio Gori

«Ma perché non metti tutto per iscritto, perché non racconti la tua storia in un diario?». «Mi chiamo Simone...». Comincia così la battaglia lunga otto mesi contro il sarcoma di Ewing di un bambino di dieci anni. La sua Calabria è lontana dal Meyer, Simone è attaccato alle flebo degli infiniti cicli di chemiotera­pia. Così, la scuola, prima la quinta elementare, poi la prima media, entra nella sua stanza d’ospedale. E la professore­ssa Elena Somigli, l’insegnante di italiano del Meyer che fa lezione nella sua stanza, lo invita a raccontars­i in quel diario. Il tema della «scuola in ospedale» è stato al centro del convegno organizzat­o ieri dalla Fondazione Meyer agli Innocenti, in cui è emersa anche la storia di Simone. «La sera del 7 febbraio 2016, mio fratello mi ha tirato una ciabatta in faccia, il giorno dopo mi sono trovato sulla guancia un piccolo bozzolo che aveva la forma di una pallina — esordisce il diario — ero arrabbiati­ssimo nei confronti di mio fratello. Solo dopo tanti mesi l’ho ringraziat­o per quella ciabattata». La diagnosi è terribile: la pallina è un tumore. Ma Simone, ricoverato al Meyer, non si perde d’animo: «Non ero mai stato in Toscana. I miei genitori hanno sempre detto che la Toscana è un posto meraviglio­so che mi aiuterà a guarire». Così, il diario suggerito dalla professore­ssa Somigli passa dai cicli di terapia ai cicli di «terapia della bellezza»: tra una chemio e l’altra, Simone va alla scoperta della Toscana con babbo e mamma. Prima i dettagli, talvolta crudissimi, delle cure, poi i momenti di libertà: «Dopo 30 giorni d’ospedale, finalmente sono riuscito a vedere la luce vera, non quella filtrata dalle finestre del Meyer». Lo «spettacolo indescrivi­bile del Duomo di Firenze», le luci di nuovo filtrate ma dalle «vetrate colorate che riflettono la luce sul Cristo sospeso sull’altare» nella basilica di Santa Croce, dove il ragazzino si sofferma sulla tomba di Meucci: «Quello che ha inventato il telefono, e ora la gente fotografa la sua tomba con uno smartphone». Poi i viaggi fuori città: «Avevo visto delle immagini di Siena e San Gimignano in alcuni giochi della Playstatio­n, ma non immaginavo minimament­e che quelle torri fossero vere!» I momenti difficili sono tanti, la nausea che non se ne va, le complicazi­oni, le forze che mancano: «Vorrei salire sulla torre di Arnolfo e guardare la piazza dall’alto ma sono stanco». Dolori tanti, ma anche gioie: la visita di Martin Castrogiov­anni al Meyer («Sembra un orco, è alto, grosso e ha una barba lunghissim­a, somiglia ad Hagrid di Harry Potter»), la gita a Coverciano e i selfie con Buffon, Florenzi, Immobile, e vai a capire papà che invece sta dietro a un signore mai sentito nominare, «che si chiama Antognoni».

«Al Meyer ci sono aule di scuola — racconta la professore­ssa Somigli — Ma visto che a volte si tratta di casi gravi, spesso le lezioni si fanno individual­mente in camera. E per far sentire il bambino più vicino alla sua vera scuola, contattiam­o i suoi insegnanti e seguiamo i loro programmi». E, per Simone, tra i compiti della scuola-ospedale anche quel diario con cui ha messo il punto sulle tante battaglie vinte. Otto mesi di ospedale, un’operazione chirurgica, nove cicli di chemio. L’ultimo, a ottobre 2016: «Non ci credo che siamo alla fine!». Il diario si chiude con i tanti grazie del bambino: «Ringrazio le mie maestre e professore­sse che hanno colmato le mie lacune, ringrazio il dott. Spinelli che mi ha tolto la pallina, ringrazio i tramonti dal ponte Santa Trinita, ringrazio il Meyer perché esiste, ringrazio la Toscana per la “terapia della bellezza”: con il suo splendore ha reso meno pesante il mio percorso».

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L’aula scuola dell’ospedale pediatrico Meyer

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