La mia Alceste mezzo secolo dopo
Pier Luigi Pizzi firmò per la prima volta l’opera di Gluck nel 1966, ora torna con lo stesso titolo «Mi sono preoccupato di fare un teatro di forte afflato tragico. Il dramma nasce dalla forza delle passioni»
Correva l’anno 1966, l’alluvione era ancora di lì a venire, e al Comunale di Firenze trionfava l’Alceste di Gluck; dirigeva Vittorio Gui, la regia era di Giorgio de Lullo, scene e costumi erano stati realizzati da un poco più che trentacinquenne Pier Luigi Pizzi. Da allora, l’opera capolavoro di Gluck non è stata più rappresentata sulle scene fiorentine. Viene proposta adesso al Teatro del Maggio (21, 25, 28 e 30 marzo), con Federico Maria Sardelli direttore, Nino Surguladze (Alceste), Leonardo Cortellazzi (Admeto), Manuel Amati (Evandro), Roberta Mameli (Ismene) nei ruoli principali.
E a firmare lo spettacolo, più di cinquant’anni dopo, è proprio Pier Luigi Pizzi: stavolta è autore in toto di regia, scene e costumi. L’allestimento è coprodotto dal Maggio con la Fenice di Venezia, dove è già stato presentato nel 2015: una lettura essenziale, dominata dai colori bianco e nero, calata in uno spazio di neoclassica sobrietà. «L’Alceste del 1966? Fu per me una grande esperienza — ricorda Pizzi — sia perché mi fece scoprire quest’opera, sia perché nel ruolo della protagonista cantava Leyla Gencer, che dette al personaggio una dimensione tragica davvero insuperabile. Va detto che all’epoca Alceste venne proposta in una versione non proprio filologica: in italiano, ma nella traduzione della successiva versione francese del 1776. Qui presentiamo la versione originale di Vienna del 1767, con il testo poetico italiano di Ranieri de’ Calzabigi». Di lì a poco, nel 1769, sulla prima stampa della partitura di Alceste appariva una prefazione: è passata alla storia come il manifesto programmatico della volontà riformatrice di Gluck, che teorizzava un teatro musicale dove la parola ritornasse in primo piano con il suo valore espressivo. Al bando il virtuosismo fine a se stesso dei cantanti, dannoso alla continuità dell’azione. È la querelle senza tempo se in un’opera debba contare più la parola o la musica. Il modello da seguire si rivelò l’antica tragedia greca. Come, appunto, l’Alcesti di Euripide, ispiratrice dell’opera di Gluck: la storia della regina Alceste, che sacrifica la propria vita agli dei per salvare il marito Admeto dalla morte causata da una misteriosa malattia. L’opera però ha un lieto fine: Apollo, mosso da pietà, restituisce Alceste ad Admeto. «Ho voluto rispettare proprio il senso della riforma di Gluck, riportando Alceste ad un’idea di classicità assoluta, senza artificiosità — spiega Pizzi — Mi sono soprattutto preoccupato di fare un teatro di forte afflato tragico, ma senza sentimentalismi. Alceste ed Admeto sono un esempio di amore coniugale perfetto: non accettano che il loro legame possa essere spezzato. Il dramma nasce dalla forza delle loro passioni». Sul palcoscenico tutto ciò si traduce in «un impianto scenico ridotto all’osso con spazi ben definiti: la Piazza, il Tempio, l’Oltretomba e la Stanza nuziale. Luoghi deputati che servono da orientamento al pubblico». E tutto sempre all’insegna della massima chiarezza: «Do spazio alla narrazione mostrando fin dall’inizio il re Admeto sopraffatto dalla malattia mortale». Il Coro poi «partecipa alla storia come nel teatro greco, disposto sulla scena in due sezioni guidate da due corifei, Evandro e Ismene Devo dire che il Coro del Maggio si è dimostrato particolarmente sensibile alle mie indicazioni mantenendo una concentrazione per tutta l’opera esemplare».
Ma le prime idee registiche di un’Alceste così concepita vennero fuori proprio con lo spettacolo del 1966. «Avevo da poco realizzato Il Gioco delle parti di Pirandello riuscendo a dare attraverso un’immagine metafisica un segno forte per rendere universale la vicenda e riscattarla da una sorta di bozzettismo folcloristico. Applicai la stessa operazione alla scenografia di Alceste, creando ambienti ispirati alla pittura post cubista tra Casorati e Sironi. All’inizio l’idea venne accolta dalla direzione artistica del Comunale con un po’ di diffidenza, ma alla fine il risultato, liberato da ogni reminiscenza barocca, raccolse grandi consensi». Da allora, Pizzi di Alceste ne ha firmate altre due, a Ginevra (1984) e alla Scala (1987): «Con gli anni la mia visione è passata attraverso i filtri di un sempre maggiore rigore, per portare lo spettacolo ad un altro livello di chiarezza e luminosità». Intanto lo spettacolo sta prendendo forma definitiva al Teatro del Maggio: «Qui lo spazio è più ampio rispetto alla Fenice, per cui lo spettacolo ha preso più respiro e ha una nuova distribuzione. Nuovo è anche il lavoro svolto con i cantanti, perché i personaggi devono essere costruiti su ognuno di loro. La credibilità nasce dal carattere dei nuovi interpreti».
Risale al 1959 il primo impegno di Pizzi sui palcoscenici fiorentini, scenografo e costumista dell’Orlando di Händel. Poi tantissimi spettacoli, molti in tandem con Ronconi regista e Muti direttore. «Anni di grande teatro, spettacoli vissuti con fervore. Il più bello? Forse l’Orfeo ed Euridice, nel 1976». Poi il suo ricordo va alla Tetralogia con Mehta («voltò pagina nell’interpretazione wagneriana»), e, come regista, a Morte a Venezia di Britten con Bartoletti sul podio e L’incoronazione di Poppea di Monteverdi diretta da Curtis. Ma nessuna preferenza: «Sono tutti nella mia mente e nel mio cuore».
Analisi Domina l’idea di una classicità assoluta, senza artificiosità e sentimentalismi