QUI FORTINO, A MILANO LABORATORIO QUANTE DIFFERENZE CON IL «LEONKA»
Ci sono notizie fiorentine di cui l’immigrato nella grande Milano non può andare fiero. Anzi, diciamo la verità, un po’ se ne vergogna, come quando scopre che l’ex brigatista Barbara Balzerani, quell’orribile castroneria sul professionismo delle vittime del terrore, l’ha detta in un centro sociale di Firenze.
Una deriva triste per il vecchio Centro Popolare Autogestito, un tempo fucina di simpatici imbrattatori di muri e attacchinatori a tappeto, capaci anche di qualche buona attività culturale, fra Piero Pelù e Stefano Benni, e ora ripiegato a questa sorta di neostalinismo dell’anima, che dà di pennivendoli, via Facebook, ai giornalisti che ne scrivono. Inevitabile il parallelo col Leonka, il centro sociale
Leoncavallo di Milano, che dell’antagonismo è stata la prima piccola patria.
Una storia che nasce dagli anni del terrore perché, pochi lo ricordano, il centro esisteva da poco quando due 19enni che lo frequentavano, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, Fausto e Iaio, furono uccisi proprio nel giorno del sequestro Moro. Freddati dagli spacciatori di eroina su cui i due indagavano, si disse sulle prime, o dai terroristi neofascisti, si aggiunse dopo: ancora oggi vittime senza giustizia.
Nel comunicato «numero 2» delle Brigate Rosse che detenevano Moro, e di cui la stessa Balzerani faceva parte, si provò a mettere il cappello su quei due assassinati, onorandoli, in una citazione, come «vittime dei sicari di regime», ma da Milano furono netti, respingendo «l’uso strumentale del nome dei due compagni da parte di un gruppo che ha scelto di inserirsi organicamente nella strategia della tensione». Il Leoncavallo, da allora, ha vissuto vicende alterne ma oggi, che lo si voglia o no, rappresenta una grande area di socialità per Milano e i milanesi.
Lo dovette ammettere, già 12 anni fa, Vittorio Sgarbi, che ci si recò come assessore alla cultura di una giunta di centrodestra, quella di Letizia Moratti, chiedendo iperbolicamente che la Sovrintendenza tutelasse i graffiti che ne affrescavano le mura.
Non che il Leonka si sia imborghesito, come suggerirebbe l’acronimo «spa» che oggi campeggia subito dopo la storica denominazione, anche perché non a una società per azioni ci si riferisce ma a quello «spazio pubblico autogestito», che vuol essere ed è. Il centro non si è chiuso, ma si è aperto.
Negli anni ha mandato in parlamento uno dei suoi dirigenti storici, Daniele Farina, due volte con Rifondazione comunista, e ha avviato attività culturali di rilievo, tanto da convincere un grande dell’enologia come Luigi Veronelli, a collaborare a un progetto di critica «altra» come Critical wine, nel momento in cui vitigni e vigneron parevano sequestrati da lusso. Una tradizione continuata con la Terra Trema, rassegna di piccoli prodotti agricoli che arrivano da tutta Italia, anche dalla Toscana.
Da allora è stato un crescendo: dal teatro ai laboratori di serigrafia, dai corsi d’inglese a quelli di cucina pop, dall’officina per le biciclette al gaming.
Ci troverete il logo di Antifa, la sigla internazionale dell’antifascismo militante, ma d’altronde, i patti sono chiari: «Con la dicitura ‘Spazio pubblico autogestito’ — scrivono i leoncavallini nel loro sito — vogliamo sottolineare il carattere aperto e inclusivo delle pratiche di autogestione e governo. Chi svolge attività si deve riconoscere nel ripudio di ogni forma di fascismo, razzismo, omofobia e sessismo». Anche per un salto al «baretto», per ascoltare un tributo a Tom Waits bevendo una birra al malto, lo si deve sapere.
Cambiamenti
Il centro sociale milanese si è imborghesito? Di certo ha scelto non di chiudersi ma di aprirsi