Il mito al Maggio
Evento Il ballerino, coreografo e attore in scena a luglio con l’omaggio all’amico Nobel per la letteratura Brodsky Più teatro che danza, in uno spettacolo emozionante. E l’Università gli consegnerà la Laurea honoris causa
A luglio arriva Baryshnikov In scena con l’omaggio al premio Nobel Brodsky
È l’evento dell’estate. Più teatro che danza, ma basta che lui alzi una mano ed è subito arte. E poi c’è la sua voce, sommessa, modulata, ma con una melodiosa capacità di evocare pensieri, immagini, sentimenti. Ma soprattutto c’è l’intensità della sua presenza, in grado già da sola di trasportare in una dimensione emozionale potente, in cui si riverberano immagini, visioni, nostalgie.
Perché quando in scena c’è Mikhail Baryshnikov, non ce n’è per nessuno. Oggi più attore che danzatore, ma con la medesima somma intelligenza interpretativa che l’ha reso — al di là della mitologia — il più grande danzatore del (secondo) Novecento. Al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, dal 3 al 5 luglio, arriva con il profondo e toccante omaggio alla poesia di Joseph Brodsky, Nobel 1987 per la letteratura, come lui fuoriuscito dall’Unione Sovietica, che con Baryshnikov strinse in esilio una fraterna amicizia.
Baryshnikov — che Brodsky giocando con il suo diminuitivo chiamava «Mysh», topolino (a sua volta firmandosi nella loro corrispondenza «Josef Kot», il gatto) — aveva incontrato il poeta a New York, subito dopo la clamorosa defezione nel corso della tournée del Balletto del Kirov in Canada, nel 1974.
Il ballerino aveva già imparato a conoscere profondamente i testi di Brodsky durante gli anni giovanili a Leningrado; era rimasto toccato dal realismo poetico di quei versi così vicini al minimo sentire e dalla spiritualità illuminata del poeta, arrivato a contrapporsi alle rozze osservazioni di chi lo aveva processato rivendicando che la vita intellettuale non può avere limiti imposti dall’ideologia (all’inquisitore che gli aveva chiesto perché non avesse studiato poesia all’Università Brodsky aveva risposto audacemente «pensavo che la poesia fosse un dono di Dio»).
Nella rutilante New York il casuale incontro aveva dato inizio ad un sodalizio spirituale: l’artista che usava il corpo per esprimersi trovava nelle poesie dell’amico le parole che davano forma ai suoi non-detti, ne ispiravano l’afflato d’interprete, carezzavano la sua anima. I due condividevano la nostalgia per la città della loro giovinezza, lo stupore dello sguardo di chi osserva da lontano i mutamenti imposti dalla storia, ma anche l’inevitabile disorientamento nel vivere una nuova esistenza e gli stridenti contrasti culturali tra vecchio e nuovo mondo, in quegli anni in frenetica evoluzione.
Brodsky rimase sempre accanto all’amico, mentre la carriera di Baryshnikov esplodeva a livello globale, mentre il suo incommensurabile genio lo spingeva a esplorare con devozione assoluta ogni forma dell’arte coreografica — da Balanchine a Cunningham, da Petipa al postmodern — dimostrando nel corso di cinquant’anni di carriera che la danza è soprattutto uno stato d’animo che può accompagnare saggiamente i vari stadi della vita attraverso diverse esperienze creative. La loro era una vicinanza fatta di lettere, mes- saggi, telefonate quotidiane, nelle quali si discuteva di tutto — e Brodsky non mancava di indicare continuamente all’amico libri da leggere, opere d’arte da vedere, artisti da ascoltare.
Mentore e alter ego fino all’ultima telefonata, il giorno prima di morire: «Sii buono, Mysh», dice Brodsky all’amico. E Baryshnikov accoglie il senso profondo di quell’invito a recuperare come prioritaria nella vita quella «categoria morale» che continua a risuonare dentro di sé, imperioso e tenace. Fino a trovare forma nello spettacolo in arrivo al Maggio, firmato dal regista lettone Alvis Hermanis dove Baryshnikov interpreta in russo e in inglese i versi di Brodsky, dà corpo alle sue immagini, le fa risuonare nelle sue pause, nel piccolo volto intenso e fascinoso, nelle mani affusolate. Una messa in scena fatta di essenza: una stanza che dà su un bosco, una valigia, una bottiglia di whisky e alcuni libri. E poi la necessità di un artista a svelarsi finalmente — senza maschere e infingimenti — attraverso le parole di «una persona per cui ho avuto un’autentica adorazione», così Mikhail ha confessato a Benedetta Craveri. Perché Brodsky/Baryshnikov non va inteso solo come un omaggio a un poeta, ma quasi una confessione intima, in gesti e poesia, di un interprete assoluto che ha saputo valicare confini: politici, geografici, linguistici e espressivi e qui si rivela attraverso le parole di chi è stato più vicino al suo cuore.
Firenze si accinge insomma ad accogliere nuovamente Baryshnikov dopo una indimenticabile Giselle che nel 1975 mandò letteralmente in visibilio il pubblico e due altre apparizioni, negli anni ‘90, in veste di raffinato interprete contemporaneo. Ma questa volta però accanto al Maggio Musicale sarà anche l’Università di Firenze a onorare il suo fondamentale contributo alla cultura del nostro tempo con il conferimento di una Laurea honoris causa in Storia dell’Arte, del Cinema, della Musica e dello Spettacolo — espressioni creative da lui attraversate benissimo in cinquant’anni di carriera. C’è da credere che anche la sua lectio magistralis sarà un momento che idealmente «Mysh» condividerà con «Josef Kot»: «Josef è stato la mia Università. Avverto ancora il suo sguardo e la sua presenza dentro di me», ha detto Baryshnikov. Questa onorificenza sarà dunque anche un po’ sua.
Reciterà i versi del poeta, fuoriuscito come lui dall’Unione Sovietica e con cui stringerà un profondo sodalizio spirituale