La rivincita di D’Agata
Sordomuto, alto solo 157 cm, l’aretino vinse il Mondiale battendo chi lo aveva sconfitto un anno prima
Erano gli anni del dopoguerra, della ricostruzione, della voglia degli italiani di belle storie, nei quali gli sportivi ebbero un ruolo di primo piano per ridare fiducia al Paese, nell’accendere speranze. E non solo il Grande Torino e Bartali e Coppi facevano sognare, c’era anche la boxe, anzi il pugilato come si chiamava allora, con i suoi eroi che riempivano le pagine dei giornali e gli stadi dove spesso erano allestiti i ring.
Anche a Firenze la boxe rinacque appena terminata la seconda guerra mondiale — l’arbitro internazionale Gino Sacchetti organizzò nel 1945 la prima riunione pugilistica addirittura nel Giardino di Boboli — grazie alle due società «rivali» della palestra Caiani a San Frediano e della Accademia in piazza Beccaria, nella sede della ex Gioventù Littoria. E uno dei personaggi più amati in tutta Italia fu «il mutino» (il politicamente corretto era lontano da venire), Mario D’Agata, venuto alla luce ad Arezzo, figlio di emigranti siciliani, sordomuto dalla nascita, e che a Firenze si trasferì per avviare la carriera pugilistica professionista, rimanendovi fino alla sua scomparsa. La storia e le imprese di D’Agata affascinarono e commossero l’Italia, che nella sua testardaggine sopra e fuori dal ring vedeva gli aspetti migliori di se stessa, sconfiggendo paletti e «regole» che sembravano insuperabili. Tutto nacque dalle zuffe che da ragazzo sosteneva per difendersi dalle immancabili canzonature, dato che era anche piccolo, gracile e povero. Ma Mario si innamorò della boxe a 18 anni e decise di diventare pugile. Sul ring più che la classe colpivano la grinta, le qualità di combattente ed incassatore, e dopo oltre 100 incontri da dilettante, di cui circa la metà vinti, nel 1950 D’Agata decise di passare professionista. Ma si scontrò con la Federazione italiana che non aveva mai dato il «patentino» ad un sordomuto, al contrario di altre Federazioni in giro per il mondo. Il no della Fip suscitò la rivolta di Arezzo, con una petizione di protesta che raccolse migliaia di firme, tra le quali quella di Amintore Fanfani (che per la Dc era già stato ministro e poi sarebbe divento segretario e più volte primo ministro), convincendo Roma a fare retromarcia, permettendogli di firmare per il toscanissimo manager Libero Cecchi.
Complice il suo metro e cinquantasette centimetri di altezza e la caratteristica di partire lento, per poi aumentare il ritmo con il passare dei round, pochi puntavano su di lui, ma Cecchi e la palestra di San Frediano (poi chiamata Sempre Avanti Juventus e frequentata da tanti calcianti bianchi) con alla guida il grande preparatore atletico Giovanni Nepi, lo portarono lentamente a salire nel ranking. Così nel 1953, nella sua Arezzo, conquistò il titolo italiano dei gallo, battendo il forte Gianni Zuddas, medaglia d’argento a Londra 1948, e piegandolo anche nella rivincita alla fine di 12 durissimi round. D’Agata ormai era un personaggio della boxe italiana, amico di Guido Mazzinghi (fratello di Sandro, futuro campione del Mondo nella scuderia di Adriano Sconcerti, altro protagonista della boxe fiorentina e italiana che ingaggiò anche il sardo-fiorentino di Rifredi Fernando Atzori a sua volta campione del Mondo), e Franco Loi che come lui si allenavano alla Sempre Avanti.
Dopo aver perso ai punti con il campione europeo Robert Cohen — la leggenda vuole che non abbia mai accettato il verdetto, tanto che l’unica parola che riusciva a sillabare era proprio Cohen — volò in Australia per monetizzare la recente fama. Al suo ritorno però un fattaccio rischiò di porre fine alla sua vita: coinvolto in una lite per questioni di debiti tra suo babbo ed un amico di famiglia, socio della lavanderia che gestivano, fu colpito al petto da una fucilata esplosa dal genitore che non lo uccise solo perché la mamma si gettò in mezzo agli uomini deviando il colpo. D’Agata invece di affrontare il campione del mondo Raul Macias si trovò a lottare in ospedale, ma la sua tempra eccezionale fece sì che dopo appena tre mesi fosse sul ring, vincendo di nuovo. E dopo 14 successi consecutivi, nell’ottobre 1955, a Milano superò in 5 round il francese Andrè Valignat e divenne campione Europeo.
Ma la scalata del sanfredianino di adozione, che in quel 1955 sposò l’amata Luana, non udente come lui, non era finita mentre i giornali facevano a gara a dargli soprannomi — «motorino», «macigno», «mitragliatrice», «piccolo Marciano» — che richiamavano la sua grinta. La sua strada e quella di Robert Cohen si incrociarono di nuovo, con il francese diventato intanto campione del mondo. Era il 29 giugno 1956 e c’era grande attesa anche perché il titolo mondiale mancava ad un pugile italiano da 23 anni esatti, dal quel 29 giugno 1933 in cui Primo Carnera aveva battuto lo statunitense Jack Sharkey. Cohen partì forte, per sfruttare la debolezza dell’italiano nei primi round, ma D’Agata era pronto e pareggiò la prima e la seconda ripresa, chiusa con una ferita al sopracciglio per il francese. Il campione in carica si innervosì, iniziò ad alternare scorrettezze a scariche furibonde di colpi, ancora più incalzanti nella quarta ripresa, vinta da Cohen, con D’Agata impegnato solo a difendersi.
Nella quinta ripresa, a sorpresa, D’Agata andò all’attacco, con tantissimi colpi al corpo e al volto dell’avversario, stancando Cohen che sul finale nel sesto round, sorpreso da un destro alla mascella, andò al tappeto e fu contato fino a nove, rialzandosi appena prima del gong che impedì a D’Agata di tornare all’attacco. All’inizio della settimana ripresa Cohen non si rialzò e per D’Agata fu il sospirato titolo mondiale. Il trionfo non durò a lungo ma D’Agata continuò a combattere per anni, conquistando anche il titolo Europeo. «La boxe mi ha insegnato a essere forte e, cosa più importante, a sentirmi uguale agli altri», ricordava sempre Mario, che si ritirò nel 1962 con 54 vittorie, 11 sconfitte e 3 pari. Ma soprattutto, come diceva con orgoglio e semplicità, «senza mai essere stato mandato ko», come il suo idolo Rocky Marciano.