IL VALORE DI UNA BATTAGLIA
L’epoca degli imprimatur è finita e sarebbe di pessimo gusto rivendicare nelle parole con cui nell’omelia pasquale il cardinale Giuseppe Betori ha richiamato l’esigenza di cercare «nell’attenzione allo splendore della forma l’espressione più adeguata dell’adesione alla verità del contenuto» una benedizione alla battaglia che questo giornale sostiene in difesa del centro di Firenze, con spirito laico anche se intriso di istanze etiche. Una battaglia in cui molti si riconoscono, ma da cui altri, a destra e a manca, prendono le distanze, vuoi per interessi di bottega, vuoi per un malinteso libertarismo tardosessantottino, dipingendola ora come una donchisciottesca carica contro i mulini a vento, ora come un chiodo fisso che potrebbe distrarre i lettori da altre, ben più gravi criticità. Che i problemi di Firenze siano molti non v’è dubbio e i «benaltristi» non hanno difficoltà a spalancare un catalogo di ferite aperte: dalla scomparsa delle antiche botteghe al racket dell’elemosina, dai venditori ambulanti di griffe taroccate alla sostituzione delle antiche pietre con anonimo asfalto, dai cantieri delle linee due e tre della tranvia sempre aperti allo spaccio di droga anch’esso sempre aperto alle fermate della linea uno, dai parcheggiatori abusivi all’occupazione illegale di immobili.
Su tutto questo certo non si può e non si deve sorvolare, ma l’impellenza di tali problematiche non autorizza ad accantonare, dinanzi a fenomeni come il mangificio di via de’ Neri, l’impegno per la tutela dell’immagine cittadina e dei valori non solo estetici che ad essa sono sottesi. Un impegno che non può essere ridimensionato a perbenistica preoccupazione per la tutela del decoro cittadino.
Le parole del cardinale, che per altro hanno preso spunto proprio da un articolo dedicato dal Corriere Fiorentino alla tradizione dello Scoppio del Carro, rivestono semmai di un valore eticoreligioso una battaglia civile. Ricordando come la difesa dell’immagine di Firenze sia «intimamente legata alla coerenza dei valori che la animano e non semplicemente a un’estetica del decoro», interrogandosi sulla «capacità di generare bellezza» della città che fu di Dante e di Brunelleschi, Sua Eminenza ha lanciato una sfida aperta anche ai laici. Lottare contro i «mangifici» che spesso a mezzanotte divengono «bevifici».
Evitare che i fiorentini abbandonino il loro centro storico, magari a favore di cittadine dell’hinterland raggiungibili in pochi minuti di treno, perché non si riconoscono in un contesto dove soltanto i muri (graffiti a parte) sono rimasti gli stessi, significa favorire le difese immunitarie della città da un virus che alla lunga potrebbe corroderla, proteggerla dal rischio di svendersi agli interessi di un turismo fatto di grandi numeri, di brevi soggiorni e di ancor più anguste prospettive.
Firenze, la città che con Caterina de’ Medici insegnò ai francesi a usare le posate, non può ridursi a capitale dello street food, in cui giovani visitatori di tutto il mondo si abituano a mangiare con le mani seduti su un marciapiede.