SE CI FOSSE GIOVANNI (RENZI, DI MAIO E C. VISTI DA SARTORI)
Giovanni Sartori, un Maestro, un amico, un grande scienziato della politica, ci ha giocato — accidenti a lui — uno scherzo da prete. Peggio, si è divertito a tirarci addosso un Pesce d’ Aprile. Giusto un anno fa, il primo di aprile, ci ha lasciato. Adesso tutto è rumore. Più aumenta il frastuono e meno si avvertono le parole di capi, capetti e caperonzoli della politica. Un mondo di nani e ballerine costretti a navigare in mari poveri.
Come sosteneva Pompeo Biondi, del quale Sartori è stato allievo. Forse per questo, maledetto toscano qual è stato, a un certo punto proprio con Biondi entrò in rotta di collisione. Ma più aumenta il rumore e più ci mancano le idee cartesianamente chiare e distinte di un personaggio che paradossalmente deve qualcosa alla Repubblica sociale italiana.
Non essendo mai stato fascista e non avendo intenzione di arruolarsi quando il fascismo era ormai agli sgoccioli, disertò la chiamata alle armi nel settembre del 1943, dopo la liberazione di Benito Mussolini. Non essendo tipo da rigirarsi i pollici, si nascose in una soffitta. E fino alla liberazione di Firenze si sciroppò filosofi di rango quali Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giorgio Hegel, Emanuele Kant e tanti altri. Sosteneva con un sorriso beffardo che chi scrive o parla oscuro o è un birbante che ha qualcosa da nascondere o, peggio, un imbecille che non ha nulla da dire. Lui se lo poteva permettere. Perché arrivava alla scienza politica dopo essersi fatto le ossa con la filosofia.
Anche grazie alla sua perfetta conoscenza dell’inglese, aveva una marcia in più rispetto a tanti suoi colleghi, anche tra i più reputati, sia in Italia sia negli Usa. Dove andò per molti anni per due motivi. Primo, perché fu chiamato dalle più rinomate Università statunitensi. Secondo, perché convinto che il Pci fosse a un passo dal potere. E lui in un’Italia sotto il tallone comunista per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto vivere.
Per una volta tanto non la vide giusta, perché non fece tesoro della micidiale battuta di Winston Churchill: «Non azzardate previsioni, lasciatele fare ai competenti, che non ne azzeccano una».
Antifascista, sicuro. Ma anche anticomunista viscerale. Tant’è vero che, abitando in viale Gramsci, si faceva recapitare la posta — e ne riceveva a pacchi ogni giorno — nella buca delle lettere sopra il cancello laterale di viale Mazzini. Ora, un tipo siffatto con quale libro poteva iniziare la sua brillante carriera scientifica? Elementare, Watson: con una ponderosa ma brillante monografia sulla democrazia. Pubblicata dal Mulino nel 1957, sarà ristampata e rielaborata più volte. Tradotta un po’ in tutto il mondo, gli valse la cattedra universitaria alla
«Cesare Alfieri». La facoltà di Giuseppe Maranini, Camillo Pellizzi, Carlo Curcio, Renzo Ravà, Giovanni Spadolini, Rodolfo Mosca, Alberto Predieri, Silvano Tosi, Luciano Cavalli, Antonio Zanfarino, Luigi Lotti. Sartori, come sanno coloro che hanno avuto la fortuna di frequentarlo, era uno spirito beffardo. E non si negò il piacere di titolare l’ultimo capitolo del suo capolavoro così: «L’altra democrazia». Intendeva corbellare quei creduloni che davvero erano convinti che la democrazia popolare che deliziava i sudditi di là dalla cortina di ferro fosse di gran lunga migliore di quella occidentale.
Ma l’occasione di questa triste ricorrenza non va lasciata cadere. E allora immaginiamo che cosa direbbe il mio amico Vanni Sartori davanti a un palcoscenico
politico che produce a noi comuni mortali l’orticaria. Di sicuro farebbe proprie le parole di un altro fiorentino a denominazione d’origine controllata. Quel Gino Bartali che con la sua squillante vittoria al giro di Francia riempì d’orgoglio noi italiani che abbiamo più dimestichezza con le sconfitte che con le vittorie e ci evitò moti insurrezionali dopo l’attentato a Palmiro Togliatti da parte di uno squilibrato. È tutto sbagliato, è tutto da rifare, soleva dire Ginettaccio. E così Sartori.
Il Nostro, diciamocela tutta, era un inguaribile elitario. E adesso sul suo Corriere della Sera le avrebbe cantate da par suo. Per dirla con Luigi Einaudi, lui andazziere non è mai stato. Come si conviene a un bastian contrario del suo calibro. Per cominciare, castigamatti più che mai, avrebbe bastonato ben bene coloro che sono salititi sul carro dei vincitori. Che trovano oltremodo simpatici i partiti che alle recenti elezioni hanno fatto il pieno di voti e di seggi parlamentari. E avrebbe rovesciato come un guanto il brocardo dell’antica Roma, il vae victis. Ma sì, guai ai vinti. Avrebbe detto: guai ai vincitori, perché ora dovrebbero darsi una mossa e invece sarà buio pesto chissà per quanto tempo ancora. Mentre Sergio Mattarella, non sapendo a che santo votarsi da buon cattolico qual è, già è ossessionato dai giri di consultazioni che dovrà fare — due, tre, quattro e così via — per trovare la chiave del rebus ministeriale.
Non è un mistero che Sartori ha sempre considerato Matteo Renzi un ragazzaccio. Uno che parla, parla, parla e cerca d’incantare i suoi interlocutori. Non gliene ha mai risparmiata una. Lo ha sbeffeggiato ma non ha mai negato che avesse stoffa. Soprattutto se comparato ai suoi orfani del Nazareno, un pugno d’uomini indecisi a tutto. E ora che è stato strabattuto alle elezioni, non ne direbbe male. Che per un fiorentino è il massimo. Apprezzerebbe il suo passo indietro. Salvo a ricredersi perché Renzi non cambierà mai. Come un fiumicello carsico scompare per ricomparire subito dopo. E tra poco, all’assemblea del partito, rispunterà di nuovo il Rieccolo nazionale.
Dell’altro Matteo, Matteo Salvini, non saprei che cosa direbbe. Forse gl’imputerebbe di essere stato comunista da giovane, salvo ricredersi. Ma avrebbe qualcosa da ridire delle sue canotte. Non si è esteti per nulla.
Mentre a Luigi Di Maio può darsi che, turandosi il naso, perdonerebbe tutto. Salvo il pessimo uso del congiuntivo. Noblesse oblige.
Lor signori, poveri gattini ciechi, adesso possono permettersi il lusso di dire tutto e il contrario di tutto. Bella forza. Beati loro, non c’è più Sartori a rivedergli le bucce.
A Matteo Renzi non ne ha mai risparmiata una, ma ora che stato strabattuto alle elezioni non ne direbbe male
Dell’altro Matteo, Salvini, non saprei cosa direbbe: certo da esteta avrebbe qualcosa da ridire sulle sue canotte
A Di Maio, può darsi che, turandosi il naso, perdonerebbe tutto Salvo il pessimo uso del congiuntivo