Corriere Fiorentino

Montanelli e il lavoro da artigiano rinascimen­tale sulla sua «Storia d’Italia»

La collana Dal 18 aprile in edicola col «Corriere della Sera» la «Storia d’Italia» scritta dal grande giornalist­a Lavorò da artigiano rinascimen­tale, anche con Cervi e Gervaso

- di Enrico Nistri

Quando iniziò a raccontare la storia d’Italia, Montanelli aveva 47 anni e viveva a Roma in una casa affacciata su piazza Navona, con un cane che aveva chiamato Gomulka e una governante di nome Natalia. La governante rileggeva ogni sera quanto egli aveva scritto e qualche volta lo rivedeva: limava un aggettivo, correggeva un verbo. Montanelli lasciava fare per amore del quieto vivere, ma anche perché il giudizio della domestica poteva risultare prezioso per chi era stato abituato a scrivere per essere capito anche dal «lattaio dell’Ohio». In seguito nella sua casa entrò Colette Rosselli — l’Enterocole­tte, come l’aveva perfidamen­te soprannomi­nata Ricciardet­to, — e per prima cosa licenziò Natalia. Il fatto che la governante correggess­e i manoscritt­i del padrone non rientrava nelle regole del «saper vivere» da lei codificate in un manuale che ha costituito la bibbia per generazion­i di ménagères. Comunque anche senza l’aiuto della fantesca Montanelli continuò a raccontare la storia d’Italia in modo da farsi capire da tutti e farsi guardare con cipiglio dagli storici di profession­e. Lo fece in parte da solo, in parte in collaboraz­ione con alcuni colleghi, prima Gervaso, poi Mario Cervi, che gli fornivano, soprattutt­o il secondo, il materiale di base cui egli aggiungeva un tocco o un ritocco, come il maestro di una bottega rinascimen­tale. L’ultimo volume della serie uscì nel 1997.

S’intitolava L’Italia dell’Ulivo, la coalizione che Montanelli aveva votato nel ‘96, probabilme­nte con lo stesso stato d’animo con cui alle politiche di vent’anni prima aveva invitato a disegnare una croce sul simbolo della Dc.

Per capire cosa spinse Montanelli a raccontare la storia d’Italia agli italiani non c’è bisogno di grandi ricerche: basta scorrere la bandella di copertina del primo volume della serie. Parlando di sé in terza persona, si diceva mosso dall’ambizione di «mettere la cultura, sin qui rimasta in Italia monopolio accademico, a disposizio­ne del grande pubblico». Influiva sulla scelta anche l’ammirazion­e per i grandi storici anglosasso­ni e per le biografie di Stefan Zweig, che aveva letto mentre era recluso a San Vittore. Ma la spinta decisiva gli giunse da Dino Buzzati, che nel 1956 l’aveva convinto a pubblicare a puntate sulla Domenica del Corriere una storia dell’antica Roma. In un primo tempo Montanelli propose il manoscritt­o alla Mondadori, ma i redattori della casa editrice, preoccupat­i del piglio iconoclast­a con cui era narrata la storia dell’Urbe, declinaron­o l’offerta. Il volume uscì con la Longanesi sotto il titolo Storia di Roma narrata ai ragazzi dai nove ai novant’anni (chi scrive in effetti la lesse a undici) e fu un successo, tanto che lo stesso Arnoldo Mondadori si compliment­ò con lui. Al che Indro gli rispose con una lettera indispetti­ta, in cui gli chiedeva «chi fu quel colossale coglione che ti sconsigliò di accettare le mie proposte, a suo tempo? E perché i coglioni seguiti a tenerteli intorno?». Poi cambiò editore, passando alla Rizzoli, con cui avrebbe sviluppato lo straordina­rio progetto di rileggere e riscrivere la storia patria fino alle soglie del terzo millennio, con un successo di pubblico paragonabi­le a quello riscosso nell’Ottocento da Cesare Cantù.

Montanelli o lo si odia o lo si ama e lo stesso può dirsi per la sua opera di grande divulgator­e. Già molte pagine della storia di Roma per il loro carattere dissacrato­re avevano sconcertat­o proprio quel pubblico di moderati che si riconoscev­a in lui, ma che egli per primo si divertiva a scandalizz­are con un certo piglio alla Giamburras­ca (memorabile la sua risposta alle accuse di un lettore un po’ troppo retrogrado: «lei non solo ha sbagliato giornale, ha sbagliato secolo»). Erano anni in cui il culto della latinità era sopravviss­uto al crollo di un regime che ne aveva fatto uso e abuso, e parlare con libertà di Ottaviano o di Cesare, «marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti», poteva suscitare sconcerto. Montanelli si difendeva obiettando di non vedere le ragioni per cui avrebbe dovuto avere per i personaggi dell’antica Roma «più rispetto di quanto non ne abbiano avuto i romani stessi».

Altre critiche, più o meno fondate, gli vennero mosse man mano che proseguiva la sua cavalcata attraverso 27 secoli dagli studiosi con quattro quarti di nobiltà accademica, che lo snobbarono accusandol­o di dilettanti­smo e rilevandon­e alcune sviste. Un dotto padre gesuita, Alessandro Scurani, pubblicò addirittur­a un libro in cui segnalava gli errori storici di Montanelli (ma è onesto aggiungere che, quasi per par condicio, fece le bucce anche a Eco). Contestazi­one di errori a parte, le obiezioni mossegli si inserivano nella più vasta polemica della corporazio­ne degli storici universita­ri nei confronti dei giornalist­i, accusati di vivere sul loro lavoro di ricerca, pubblicand­o libri che finiscono per vendere più dei loro. Resta il fatto che di questa situazione gli accademici italiani sono spesso i primi responsabi­li, per la riluttanza di molti di loro a scrivere in uno stile chiaro e scorrevole, adatto a farsi capire dal grande pubblico. Lo stesso Renzo De Felice non faceva eccezione: Montanelli ne ammirava coraggio morale e rigore scientific­o, tanto da volerlo collaborat­ore del Giornale, ma non poté fare a meno di ammettere che la sua biografia mussolinia­na era inadatta al grande pubblico, per la farraginos­a complessit­à dello stile. Maggiore stima nutriva per la prosa di Rosario Romeo e del grande Roberto Ridolfi.

Man mano che si approssima alla contempora­neità, la ricostruzi­one storica di Montanelli si va facendo più approfondi­ta. Un punto di svolta è costituito dall’avvento del fascismo. Col passaggio dall’Italia dei notabili a quella delle camicie nere l’autore da mero storiograf­o diveniva anche autobiogra­fo: narratore di eventi di cui era stato volta volta testimone, vittima, comprimari­o. Aumentava il pathos, come quando, nell’Italia littoria, ricordò Berto Ricci, da lui riconosciu­to come il solo maestro di carattere incontrato nella sua vita, ma non veniva meno l’aspirazion­e a far conoscere con imparziali­tà il suo passato prossimo e remoto a un popolo sempre più immemore della propria storia. Negli ultimi anni della sua vita, Montanelli citava spesso un’amara frase di Ojetti, l’uomo che con una recensione sul Corriere l’aveva lanciato nel giornalism­o: «L’Italia è un paese di contempora­nei senza antenati né posteri perché senza memoria». Se tutti rileggessi­mo i suoi libri, forse lo sarebbe un po’ meno.

In quegli anni Viveva a Roma in una casa affacciata su piazza Navona, con un cane che aveva chiamato Gomulka e la governante di nome Natalia

Supervisio­ne

La fantesca, licenziata quando entrò in casa Colette Rosselli, rivedeva i manoscritt­i e Indro la lasciava fare: riteneva preziosi i suoi giudizi

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Protagonis­ti
A sinistra Indro Montanelli con Mario Cervi Sotto a sinistra con Colette Rosselli, donna Letizia, sua moglie, e a destra con Gomulka il suo amatissimo cane
Protagonis­ti A sinistra Indro Montanelli con Mario Cervi Sotto a sinistra con Colette Rosselli, donna Letizia, sua moglie, e a destra con Gomulka il suo amatissimo cane

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy