IL LUOGO DELL’ANIMA CHE HA PERSO IL TRENO
Ci si andava prima in carrozza, poi in treno, in torpedone, infine in auto, qualcuno in moto o anche in bicicletta. È rimasta, per chi non si accontenta delle alture di Monte Morello o non ha voglia di spingersi fino all’Abetone, la domestica montagna dei fiorentini.
E ancor oggi il pratone davanti all’abbazia nei giorni di calura estiva brulica di famiglie intente a consumare il rito del picnic. Ma il fascino dei tempi d’oro è passato da un pezzo. Memorie monastiche a parte, la fortuna di Vallombrosa e del Saltino risale alla fine dell’Ottocento. Era l’epoca della scoperta delle località climatiche, termali, marine, montane. Villeggiare a Vallombrosa era uno status symbol, un po’ come mandare le figlie a studiare al collegio della Santissima Annunziata: un modo per curare le patologie del corpo come per purgarsi delle inflessioni dialettali. A Vallombrosa venivano da tutta Italia, salvo magari lamentarsi che fosse «troppo ombrosa». Anzi, venivano da tutta Europa: qui si fermò Paul Lanzky, poeta tedesco innamorato di Nietzsche, che invitò per un breve soggiorno, ma senza molto successo: l’autore dello Zarathustra preferiva l’Alta Engandina, in cui aveva concepito l’idea dell’eterno ritorno. Al servizio di quella clientela elitaria venne realizzata, nel 1892, una ferrovia: 8 km a scartamento ridotto che raccordavano il Saltino alla stazione di Sant’Ellero sulla FirenzeRoma. Treni a vapore, muniti di parascintille per impedire incendi alla foresta. Vallombrosa visse allora i suoi giorni più belli, interrotti paradossalmente proprio dalla vittoria italiana nella grande guerra. L’annessione del TrentinoAlto Adige spostò molta parte del turismo italiano verso le montagne «redente». La stazione climatica declinò, e con essa la ferrovia, che nel 1924 effettuò l’ultima corsa. La sostituirono i torpedoni della Sita. Non più stazione climatica nazionale, Vallombrosa divenne la montagna dei fiorentini, meta di scampagnate domenicali nei mesi estivi, ma anche teatro del «battesimo della neve» per molti bambini. E tale è rimasta, anche se con alterne fortune. C’era chi ci saliva per un déjeuner sur l’herbe strapaesano, sul «pratone» antistante la mole seicentesca dell’abbazia, magari con un panino con la porchetta del «Vecchio Chiosco». C’era chi bussava al refettorio dei monaci, per gustare aromatiche caramelle al miele, e chi si allargava a un pranzo nella «pagoda» del ristorante Santa Caterina, così chiamato dalla vicina cappella, con la pasta tirata col «mattero», i funghi porcini e gli spiedini cotti al girarrosto col fuoco di quercia. E c’era chi, per una merenda, preferiva spingersi fino alla Consuma, al bar Consumi, gestito dagli eredi di una secolare locanda, o al panoramico chalet «Il Valico». Per qualche tempo, Vallombrosa conobbe un rilancio anche negli sport invernali. Negli anni ’60 sulla vetta di Monte Secchieta vennero aperte tre piste per lo sci alpino e una per il fondo. Poteva essere l’occasione per un rilancio, ma le preoccupazio ni ecologiche condussero nel 1988 alla chiusura, fra le consuete polemiche. Vallombrosa diveniva sempre più in parte una meta per famigliole in fuga dall’afa ferragostana, in parte, con i suoi storici alberghi in molti casi rimasti fermi alla belle
époque, asilo di un turismo per anziani, magari «parcheggiati» dai familiari in una località fresca ma facilmente raggiungibile. Eppure, anche se il trenino non ansima più, la foresteria dei monaci è chiusa dieci mesi all’anno e i mutamenti climatici minacciano la vegetazione, Vallombrosa rimane per molti fiorentini un luogo dell’anima. E pazienza se in un secolo ha perso più di un treno.
Rilanci e cadute
Oggi è il luogo della fuga dall’afa ferragostana Negli anni ‘60 vennero aperte e poi chiuse per le proteste degli ecologisti le piste da sci: l’ultima occasione persa