Cannes, l’ovazione per il Lazzaro della Rohrwacher
La regista fiorentina in concorso: «Mostro il crepuscolo del mondo contadino»
Non è ancora un trionfo, ma poco ci manca. Su una Croisette fin qui avara di grandi sorprese, i dieci minuti di applausi che hanno accolto il nuovo film di Alice Rohrwacher, Lazzaro felice, sono stati il primo vero momento emozionante del Festival di Cannes, con la critica francese che parla già di capolavoro e i consensi che crescono ora dopo ora (e con Roberto Benigni che ha accompagnato sulla Montée des Marches la moglie Nicoletta Braschi, la crudele Marchesa Alfonsina del film). Per la regista originaria di Fiesole si tratta di una bella conferma, visto che proprio a Cannes vinse il suo primo Grand Prix, quattro anni fa, per la sua precedente opera, Le meraviglie.
E sempre di meraviglioso si tratta, visto che il film racconta la storia di Lazzaro, un giovane contadino che non ha ancora vent’anni e sorride alla vita. Anzi, la sua bontà pura e spontanea lo fa a volte sembrare una persona stupida e ingenua, di cui è facile approfittare. Incapace di pensare male del prossimo, Lazzaro non può fare altro che credere negli esseri umani. Al suo fianco Tancredi, giovanissimo anche lui, ma viziato dalla sua immaginazione sconfinaregista ta. La loro è un’amicizia vera, che attraverserà intatta il tempo e le conseguenze dirompenti della fine di un Grande Inganno, portando Lazzaro nella città, enorme e vuota, proprio alla ricerca di Tancredi.
Da quell’infanzia quasi ancestrale passata nelle campagne di Fiesole (i genitori della vivono ancora lì, in un casa colonica fuori dal centro abitato) Rorhwacher ha tratto ispirazione per un film che — racconta la regista — «mostra il crepuscolo di un’epoca feudale, quella del mondo contadino alla fine della mezzadria, messa fuori legge nel 1982, e del passaggio da un medioevo sociale a uno apocalittico. L’idea era quella di raccontare un mondo che cambia, si trasforma, ma resta sempre lo stesso: mutano le sue forme, ma lo sfruttamento rimane senza però escludere la possibilità, non la scelta, della bontà. L’innocenza è la capacità di non morire mai, di rinascere sempre: Lazzaro è immune al tempo e sta lì a interrogarci su una strada che continuiamo a non scegliere, che è quella dello sguardo d’amore verso l’altro».
Rorhwacher vede il suo cinema all’ombra di due grandi maestri appena scomparsi, Vittorio Taviani ed Ermanno Olmi, e ribadisce il carattere magico del suo realismo: «Il film è una fiaba, con un coro di personaggi che si dividono in buoni e i cattivi, ma è anche un film religioso, di una spiritualità preistorica, dell’essere umano, resa attraverso la realtà di campagne e città che (alla maniera di Giotto, ndr) abbiamo cercato di rendere nella loro spontanea bellezza, senza cadere nella trappola della seduzione figurativa».
La storia «È una fiaba, con un coro di personaggi che si dividono in buoni e cattivi»