Giordana al Maggio «Io, Verdi e un’Italia che non c’è più»
Al Maggio Il regista de «I cento passi» alle prese con l’opera di Verdi, in scena da oggi «Il mio lavoro celebra l’energia delle persone unite da un ideale comune, non il Carroccio»
Nella sala grande del teatro del Maggio Marco Tullio Giordana osserva le scene — il rosso di piccoli mattoni evoca atmosfere dei Comuni medioevali — e dirige i loro movimenti così come l’incidenza della luce. «Senza camera da presa — spiega — le regole cambiano. Quello che in un film risolvi con un primo piano, in una scena che ha un solo punto di vista si affronta lavorando con giochi di ombre e di luce. Il personaggio più illuminato è quello su cui concentrare l’attenzione». Il regista de La Meglio gioventù, I cento passi e Nome di donna è alla sua seconda regia d’opera: da oggi a giovedì 31 il Teatro accoglie la sua versione de La battaglia di Legnano di Verdi, opera poco rappresentata che porta in scena la resistenza dei Comuni della Lega Lombarda contro il conquistatore Federico Barbarossa e sullo sfondo l’amore tormentato di Lida, sposa di Rolando, per Arrigo. Questo LXXXI festival del Maggio, d’altro canto, per desiderio del sovrintendente Cristiano Chiarot è particolarmente vocato alle sperimentazioni in regia — ricordiamo che si è inaugurato con Cardillac di Paul Hindemith per la regia di Valerio Binasco. Così l’arrivo di Giordana, di casa a Firenze, anche perché è qui che ha incontrato la sua attuale compagna, è parte di un disegno più ampio.
«Mi ha chiamato Chiarot, forse perché sa del mio amore per la musica, ed è stato lui a propormi La Battaglia di Legnano. Mi ha fatto molto piacere, questa è un’opera che amo particolarmente. Intanto perché anche se è ambientata nel 1177 la sua prima rappresentazione nel 1849 rende esplicito il suo riferimento alla prima guerra d’indipendenza contro l’Austria e ai moti risorgimentali, un periodo della storia che mi è molto caro perché ricco di una grande forza rivoluzionaria. E poi perché mi evoca dei ricordi di bimbo. Io sono di Crema e già da bambino a casa mia mi ricordavano — cosa che è esplicitato anche nel libretto dell’opera — come la mia città si fosse distinta per il suo precoce sostegno al Carroccio contro il Barbarossa, cosa che non aveva fatto in principio la vicina Cremona. Questo fa sorgere in me una sorta di orgoglio tutto infantile».
Non teme che questo inneggiare alla Lega lombarda e al Carroccio oggi possa sollecitare una lettura politica dell’opera?
«No, le letture politiche delle opere lasciano il tempo che trovano. Altrimenti avremmo dovuto mettere al bando Wagner amatissimo da Hitler. Peraltro, in quest’opera, Verdi celebra la forza di un ideale comune — è in virtù di esso che la piccola Lega Lombarda sconfigge il Barbarossa imperatore — e ancora la forza dell’amicizia e l’amore materno. È un problema di valori non di sigle politiche».
Che tipo di ambientazione ha pensato?
«Coeva alla storia rappresentata. Non credo all’enfatizzazione insita nel lavoro di attualizzazione. Rende retorico il messaggio dell’opera. Vedrete molto legno, molto mattoni, l’immagine di un’Italia ai tempi dei Comuni. È questo che abbiamo immaginato, anche se in versione stilizzata, con Gianni Carluccio che firma le scene e le luci. Quanto ai costumi, di Elisabetta Antico e Francesca Sartori, ci siamo ispirati all’arte più tarda. Vedrete molti rosso Pontormo».
Cosa le piace dell’opera? «La musica, bellissima: è lei che detta i tempi e dice al regista quanto indugiare su una scena e quanto lasciar correre in altre. Dà il ritmo che per la regia è tutto. Poi certo c’è il libretto che è bello. Insieme, libretto e musica — in cui, al momento del trionfo dei Comuni, troviamo anche l’eco della Marsigliese — danno fiato a una situazione di grazia. Quel momento in cui si forma l’unità (in questo caso dei Comuni ndr) delle intenzioni e con essa si sprigiona un’energia che trasforma il voler cambiare le cose in un momento creativo. È un’istantanea particolarmente bella e intensa della Storia».
C’è anche un risvolto privato: Lida, innamorata di Arrigo, sposa Rolando credendo che il primo sia morto in battaglia. Quando scopre che Arrigo è vivo gli spiega le ragioni della scelta (ero rimasta sola e orfana), gli promette di scappare con lui, cerca di fermarlo quando lui vuole ancora arruolarsi per dimenticare la delusione amorosa. Non è un gran figura di donna…
«Non sono d’accordo, tutte le donne di Verdi sono creature tormentate. Lida è la quintessenza dell’amore materno. Dopo aver rinunciato all’amore per Arrigo è nel ruolo di madre che si immedesima. Quando chiede ad Arrigo di non arruolarsi lo induce a pensare quale dolore arrecherebbe a sua madre. Il resto è sullo sfondo. Anche il moto di gelosia di Rolando, quando scopre del sentimento che lega la moglie a quell’altro, si stempera nella più alta emozione dell’amicizia».
Lei è di nuovo a Firenze a distanza di poche settimane, quando l’abbiamo incontrata per la presentazione del film «Nome di donna». Ma è un habituée qui, per ragioni private, e perché ad appena 16 anni venne per partecipare al recupero della città durante l’alluvione del ‘66. Che ricordo serba di quell’esperienza?
«Bellissimo. Anche se non credo di essere stato molto utile. Chi era ancora minorenne andava stornato verso attività non pericolose. Comunque sia fu una sorta di ‘68 ante litteram, con tanti giovani insieme per fare qualcosa di bello. Forse qualcosa di più intenso dello ‘68 che sarebbe sfociato in violenze e strumentalizzazioni politiche».
Le letture politiche? Lasciano il tempo che trovano Vedrete l’immagine dell’Italia al tempo dei Comuni e molto rosso Pontormo