IL PATTO GIALLOVERDE? ANCHE NEI COMUNI AL VOTO
Gli uomini sono sempre mossi dalle stesse passioni. Gli effetti devastanti prodotti un tempo dalle guerre oggi sono figli della crisi economica e del tramonto di un lungo ciclo di benessere. La reazione non cambia. L’Italia ha vissuto due fasi recessive profonde: 2008/9 e 2012/13. I dati sono impressionanti: Pil calato di 10 punti, crollo degli investimenti di circa mille miliardi, flessione dei consumi e dell’occupazione, giovani sottoposti alle conseguenze peggiori. Il tempo medio di lavoro è diminuito, aumenta il lavoro irregolare, crescono nuove forme di occupazione ma a bassa remunerazione. Le imprese che sono uscite per prime dall’emergenza sono quelle che esportano, ma sono poco più di 190.000, il 4.6%. È l’immagine delle macerie provocate da una guerra. Su diversi fronti il governo ha fatto un buon lavoro, eppure ancora troppo flebile per essere percepito dalle famiglie. La ripresa si consolida, ma le fasce deboli aumentano e soprattutto alligna ovunque una disparità che sfocia nella più intollerabile delle disuguaglianze. La pelle del ceto medio è stata strappata a brandelli dalla crisi. Il futuro si è fatto incerto, la paura di non farcela domina. Non riconosci il mondo in cui vivi. La rivoluzione tecnologica ti ha spiazzato, il linguaggio di tuo figlio ti è ignoto, la società di mezzo nella quale trovavi rifugio scomparsa. Di chi la colpa? Della politica, responsabile di tutto. Troppe chiacchiere, troppi soldi spesi per la casta. Meglio confidare in chi offre risposte decisive, senza patteggiamenti: uomini del destino, movimenti antisistema. È la fotografia di questa Italia, nutrita dagli stessi sentimenti che si agitavano all’indomani della guerra italo-austriaca. Allora furono gli agrari ad armare la mano dei fascisti ma il motore dello scontento lo accese il ceto medio artigiano e impiegatizio tradito dalla vittoria mutilata e soprattutto dalla perdita di ruolo sociale, furono la maggioranza massimalista che isolò Turati e la nascita del Partito Comunista a rendere profonda la frattura nel sistema liberale senza saper offrire solide soluzioni alternative. Il piccolo borghese tornato dal fronte teme per il suo status, incalzato da mezzadri e braccianti organizzati che conquistano le otto ore di lavoro, lotta contro l’inflazione che gli dimezza lo stipendio. Ai fanti contadini erano stati promessi «pane e terra» e ad aspettarli troveranno la miseria nera. La pancia è la stessa, i sentimenti i medesimi: distruggere lo status quo. Il manganello è stato affidato a Salvini, l’olio di ricino consegnato a Di Maio. Differenti da quelli in auge tra il ‘19 e il ‘24, eppure la sostanza non cambia. L’urlo non cambia: mandateli a casa! Che poi la democrazia ne soffra, chi se ne frega; che l’antieuropeismo e la minaccia di uscire dall’euro provochino danni, chi se ne frega; che l’antipartitismo approdi a forme di microdittatura del capo, chi se ne frega. Avranno pure programmi diversi, resta il fatto che il mastice è nell’essere entrambi, e intimamente, antisistema. Vivono di una massiccia propaganda condita di slogan rivoluzionari, rifuggono l’intermediazione. Il motto è «fanculo» al sistema, la ruspa il gonfalone. La loro alleanza non è tattica. È strategica. Se Salvini avesse voluto giocare una partita tradizionale, non avrebbe rotto il centro-destra quando avrebbe potuto, in tempi brevi, dominarlo. Salvini vuol liberarsi degli alleati. Lo farà lentamente e dopo aver stabilizzato il governo. Siccome la scommessa consolare investe il futuro, Lega e M5S sono destinati a non farsi la guerra nei Comuni e nelle Regioni al voto. Sarà interessante osservare il turno del 2019. L’esperimento ha bisogno di stabilità per riuscire. Intanto, che la sinistra non perda più tempo.
Come prima del fascismo
La crisi morde, la rivoluzione tecnologica spiazza tutti, il futuro si fa incerto
E le forze antisistema prosperano