La Pinacoteca fatta a pezzi
Nel piano di sviluppo del Santa Maria della Scala non trovano spazio le prestigiose collezioni Pare ormai consolidata la volontà di smembrare in tre nuclei un tesoro che merita valorizzazione
Presentato come approdo definitivo di un Piano di Sviluppo quadriennale (20182021) del Santa Maria della Scala, l’analitico documento desta non poche preoccupazioni. Nella sostanza è il fastoso funerale del progetto lungamente a Siena coltivato di collocare nell’antico xenodochio (tra i primi ospizi per pellegrini) la Pinacoteca Nazionale, criticamente rivisitata e arricchita di nuovi innesti. Questo era il cuore del disegno rilanciato da Cesare Brandi e al centro — dal 1982 — di una cospicua serie di incontri, indagini, convegni e atti deliberativi comunali. Più che per quanto vi è scritto, la transizione abbozzata verso un nebbioso futuro deve essere valutata per quanto non dice.
Si è ribadito fino alla noia che l’asse di una prospettiva tanto ambiziosa era dare una sistemazione degna al nucleo più alto e celebrato del patrimonio artistico senese, costretto in sale non più adeguate. Ma è proprio a questo obiettivo strategico che si rinuncia, forse una volta per tutte. Aver inserito nel cosiddetto Polo museale toscano, in un disomogeneo e affastellato insieme d’una cinquantina di sedi, la Pinacoteca inaugurata nel 1932 è stato un obbrobrio, accettato purtroppo con qualche timido e isolato mugugno. Ora il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo sembra considerare irrecusabile questa degradante opzione. Le difficoltà per realizzarla sono effettive: dal momento che nessuno mette in dubbio la natura statuale della Pinacoteca sono necessari complicati meccanismi di convenzionamento e puntuali accordi per regolare i rapporti tra i vari enti titolari della proprietà delle opere. Nessuno pretendeva che la situazione si sbloccasse dall’oggi al domani, anche se impostata da decenni. Nel programma operativo si prevede al riguardo solo la riunificazione della collezione Spannocchi: una parte minima della sequenza di tavole ospitata a palazzo Buonsignori Brigidi. Sicché vien da pensare che ormai sia consolidata la volontà di smembrare la Pinacoteca in tre nuclei, dei quali quello in partenza per il Santa Maria non è certo il principale. La maggior quantità di testimonianze resterebbe dove sta ora ed un’altra sezione — perlopiù opere da metà Cinquecento in poi — dovrebbe trovare alloggio nel palazzo Chigi-Piccolomini, tutto da strutturare come museo. Tale orientamento è bersagliato da acuminati strali, ma il Comune pare arrendersi e prendere atto della lambiccata disarticolazione. Per attuare il progetto originario, caldeggiato da una miriade di studiosi, occorrerebbe che il Santa Maria diventasse un soggetto forte, pubblico, autonomo e autorevole sulla scena internazionale. Invece che accelerare la definizione giuridica dell’affascinante complesso si ribadisce che dall’anno prossimo tornerà ad essere una «istituzione comunale», figura alquanto debole e dipendente dall’amministrazione municipale, con gli impacci e i limiti che questa fragile fisionomia comporta. Non si esclude che nel prosieguo assuma «una forma giuridica di natura privatistica quale ad esempio la fondazione o la società consortile». Perché rimandare questo snodo essenziale alle calende greche? Perché tanta prudente vaghezza? Le grosse riserve ribadite non inducono a rifiutare formulazioni accettabili del Piano, espresse — ahimè — con gli abusati anglismi fatti apposta per prestarsi alle più varie traduzioni. La mission affidata è farne prioritariamente un museo-città, attivo nel promuovere il welfare culturale favorendo accoglienza e cura di viaggiatori e residenti: quasi per resuscitare la pia cifra della nascita. Quindi si riprende il proposito di farne un luogo «poli-esperienziale» in grado di organizzare laboratori a scopi pedagogici. Ancora: un hub internazionale di incontro tra i senesi e il mondo per confrontarsi con i linguaggi innovativi. Oltre al Museo archeologico — da modificare rispetto all’attuale configurazione — ecco il Museo dei bambini, con un ripensamento del concept finora prevalente, e uno spazio dedicato alla fotografia toscana. Le mostre temporanee farebbero la parte del leone. L’elenco delle attività permanenti ipotizzate fa girar la testa da quanto è nutrito: laboratori, centri di rigenerazione urbana, gemellaggi, working e co-working da affidare a operatori locali. Il direttore Daniele Pitteri ha spiegato con pirotecnica fantasia l’impronta glocal che anima lo spirito dell’impresa e ha sottolineato con giustificata soddisfazione i vivaci segni di un’indubbia ripresa. Ma se si vuole affermare un’identità riconoscibile e attrattiva il menu deve essere più parco, più selettivo. Bene occuparsi sul serio di fundraising e non ignorare la ristorazione. Pur di non esaltare come fine dei fini il raggiungimento al 2020 di quota 250.000 biglietti annui. Le cifre della maledetta audience non sono sinonimo di qualità.
Un altro futuro Nell’ex spedale, la cui missione è diventare un museo-città, confluirà solo una minima parte