Da Paoli a Gaber, il racconto di chi suonava con loro
Il musicista dei cantautori Gian Franco Reverberi racconta una stagione magica «Tenco era un amico, pieno di curiosità. Gino Paoli il più ambizioso. De André? Non era triste»
È tutta una questione generazionale. Di fame, di stimoli. «Chi non è cresciuto con la guerra non può capire l’entusiasmo, la voglia di divertirsi che si è scatenata dopo. E che noi ci siamo portati dietro fino ai 90 anni. Noi che abbiamo visto nascere il rock’n’roll, noi della rivoluzione juke-box...». Lo spiega così, Gian Franco Reverberi, il motivo per cui «non c’è più stata una stagione musicale così ricca come quella degli anni Sessanta». Loro avevano «fame di vita» e le generazioni successive hanno vissuto con la pancia piena. Lì è iniziata la sua strada di compositore, produttore, talent scout: con Ciao ti dirò, Celentano e Gaber, 1958. Una strada gloriosa come poche altre, proseguita alla guida della celebre «scuola genovese» fianco a fianco con il fratello Gian Piero e la schiera dei cantautori che hanno cambiato per sempre la musica: nei crediti di ogni grande pezzo trovavamo «musica di Gian Franco Reverberi». O del fratello Gian Piero. O di entrambi. La notte per Mina, Ti amo con Endrigo, Ti ricorderai di Tenco, Ti ringrazio perché di Michele, Hai una faccia nera nera e Il cielo con Lucio Dalla, produttore di De André e Ciampi. Una strada tanto lunga che il Festival del Viaggio ha voluto dedicargli una giornata: sabato 9 giugno (ore 21) al Caffè letterario Le Murate. «La Strada Reverberi». A partire dalla sua autobiografia La testa nel secchio (Iacobelli editore).
Per tutta la vita ha scritto musica per i cantautori e con alcuni ha condiviso una grande amicizia. Com’erano nella quotidianità?
«Tenco è stato quello più vicino al mio modo di pensare, infatti eravamo molto amici. Era un po’ improvvisato sul piano musicale, come gli altri, ma aveva una grande curiosità, voglia di cercare armonie sempre più complesse. E suonava il sax benissimo. Era il più avanti». Sul piano personale? «Bruno Lauzi era il più simpatico. Piero Ciampi era quello geniale, sarcastico, e di qualunque argomento parlassimo aveva sempre un modo poetico e personale di dire le cose. Nonostante ciò che si pensa, è sempre stato un vincente».
Di quel primo nucleo storico è rimasto solo Gino Paoli…
«Gino era il meno “musicale” ma il più ambizioso, andava avanti come un ariete. De André era tutto l’opposto di quanto ha raccontato l’ultimo sceneggiato: un ragazzo divertente, piacevole, non certo il disperato triste morto di fame che abbiamo visto su Rai 1».
All’inizio di tutto, fu Gaber. «Quando ero militare a Milano mettemmo insieme il primo trio jazz: io suonavo il vibrafono. Insieme abbiamo iniziato la stagione del rock’n’roll italiano scrivendo Ciao ti dirò. L’amicizia tra noi nacque in modo semplice: non mi andava di rimanere a mangiare in caserma, rancio pessimo, allora pranzavo a casa sua. Giorgio attirava subito la simpatia della gente. Una faccia vincente».
Perché si è interrotto tutto così bruscamente?
«È morta la discografia».
Ma la musica continua… «Non siamo su binario morto, ma fermi alla stazione sì, in attesa di un nuovo capostazione che ci ridia il via. Come fu l’avvento del juke box».
Cosa successe?
«Prima c’era solo la radio. Il juke box portò per la prima la possibilità di scegliere. L’esatto contrario di quello che è successo con l’arrivo di internet: la musica è diventata una cosa che si “scarica”. Ai nostri tempi cercavamo la novità, attendevamo le curiosità dall’America, andavano nei negozi con le cuffie per studiare».
Quand’è iniziato il declino? «Dagli anni Ottanta è stata una lenta discesa. Ma sono ottimista e aspetto una risalita, ci deve essere per forza. Mi rifiuto di credere che le nuove generazioni possano accontentarsi di quello che sentono».
Perché ha intitolato la sua autobiografia «La testa nel secchio»?
«Al primo disco con Paoli, in cuffia non sentivamo nulla, nemmeno la voce. Gino non riusciva a intonarsi. A un certo punto mi venne un’idea: presi un secchio e glie lo misi in testa. La voce rimbombava benissimo, anche se veniva una fuori una schifezza» (ride).
Il momento più gratificante della sua carriera?
«Quando io e Nicola Di Bari nel ‘70 siamo andati a Sanremo con La prima cosa bella: mi ero indebitato fino al collo, ma abbiamo fatto il botto con 1 milione e 750 mila copie. E poi vedere Crazy diventare disco di platino negli Stati Uniti a quasi 40 anni da quando io e mio fratello la scrivemmo per il western Preparati la bara!».
Se si guarda indietro è più l’orgoglio o più la nostalgia?
«Nessun rimpianto né nostalgia. Anche se la discografia è morta e ho smesso di fare dischi, non ho mai smesso di lavorare, tutti i giorni sono in studio di registrazione. Mi diverto più a far musica che a giocare a bocce. Ho 84 anni e continuerò fino ai 120. Poi, forse, vado in pensione».
Insieme a Gaber Ci siamo conosciuti quando ero militare a Milano e andavo a mangiare a casa sua