CONSIGLI FIORENTINI PER CONTE (CONTE ZIO)
Alla domanda su come se la fosse cavata durante la Rivoluzione francese, un tale rispose: «Sono sopravvissuto». Fatte le debite proporzioni, siamo giusti, anche a Firenze più che vivere si sopravvive. Tra un taglia e cuci e un altro.
Neppure l’ateneo fiorentino può essere riguardato come un’isola felice. Per spiegare ai foresti di che pasta fossero i fiorentini, Silvano Tosi, eminente cattedratico di Diritto parlamentare, immaginava una scenetta del genere. Al Bottegone — caffè, di fianco al Duomo, che non c’è più — s’incontrano due suoi colleghi. Fiorentinissimi come lui. Dice l’uno: «Hai visto, Giovanni Spadolini è stato nominato presidente del Consiglio. Più che un collega, è un amico carissimo». E l’altro, di rimando: «E non hai fatto nulla per osteggiarlo?».
Non appena nominato da Sergio Mattarella, Giuseppe Conte avrà acceso un cero a Padre Pio per grazia ricevuta. Perché, dopo il disastroso fallimento del primo incarico, ben pochi avrebbero scommesso un euro sulla sua resurrezione. Ma adesso per lui si apre una sfida non da poco. Fin da oggi, quando si presenterà in Parlamento — come a dire in bocca ai lupi — per esporre le linee programmatiche del governo. Come sosteneva Benito Mussolini, l’importante è durare. Perché il successo rende simpatici, moltiplica i consensi e riduce al lumicino il dissenso. Già, ma questo governo durerà? A quanto pare, nella morsa dei diarchi gialloverdi, il destino del ministero non dipende da Conte. Soprattutto se si riflette sul fatto che il famoso contratto è pieno di vuoto, a dispetto del numero delle pagine. Mentre Di Maio e Salvini al primo contatto con le rispettive burocrazie hanno compreso che non sarà facile onorare in un battibaleno le tante promesse fatte in campagna elettorale.
Conte lo sa e non si espone più di tanto. Con Giorgia Meloni ha fatto sfoggio di diplomazia. Alla domanda su quali fossero le priorità del governo, dal momento che il programma ci costerebbe non meno di 100 miliardi e per la sua realizzazione occorrerebbero una ventina d’anni, Conte ha replicato: «Dipende dalla maggioranza parlamentare». Ciò significa che per il presidente del Consiglio in carica il governo non è il comitato direttivo del Parlamento, come nel Regno Unito, ma ne è il comitato esecutivo. Di nome e di fatto. E forse non è un caso che Mattarella abbia messo in guardia dall’assemblearismo. Che poi — come tuonavano negli anni ’70 maestri del diritto come Vezio Crisafulli, Aldo Sandulli e Antonio La Pergola — altro non è che l’anticamera della partitocrazia.
A questo punto si spera che Conte faccia tesoro dell’esperienza fiorentina. Non può competere con la megalomania di un Di Maio, che facendo il verso a Luigi XIV s’identifica con lo Stato. Né può recitare la parte del lione, sprovvisto com’è del diritto della forza. Ma potrà ben calzare i panni della golpe. Sì, della volpe. E ricorrere all’astuzia allo scopo di sopravvivere alla bell’e meglio. Lui, Pinocchio, tra due inflessibili gendarmi. Dopo tutto, la lezione di un fiorentino come Niccolò Machiavelli è più che mai attuale. Ci rendiamo conto che il premier ha un’agenda politica che lo impegnerà da mane a sera. Ma si ritagli uno spazio per leggere e rileggere
Il Principe. Nutrirà così lo spirito e avrà un’eccellente bussola per navigare nelle acque infide della politica.
Al segretario della Repubblica fiorentina aggiunga poi un lombardo come Alessandro Manzoni, che aveva una tale considerazione della lingua toscana da venire a sciacquare i panni in Arno. Orbene, la figura che calza a pennello al professore di diritto privato è quella del Conte zio. Per forza. Se non vorrà tirare a campare come un Andreotti, dovrà — per l’appunto come il manzoniano Conte zio — troncare, sopire. Insomma, ridimensionare ogni cosa. Alla scuola di un Gianni Letta. E mediare di continuo. Equidistante dai diarchi. Soltanto così avrà la speranza di far cantare a dovere la Carta fondamentale della Repubblica. Magari confidando, qualora la partita si facesse dura e i duri scendessero in campo, sui suggerimenti del Quirinale. La verità è che l’articolo 95 della Costituzione è stato disatteso ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, caratterizzata dal fatto di essere mediata dai partiti per via della proporzionale. Ed è stato rispettato a puntino solo nella cosiddetta Seconda Repubblica, quando i presidenti del Consiglio — grazie a sistemi elettorali maggioritari — avevano di fatto un’investitura popolare.
Maurice Hauriou sosteneva che dove c’è potere, c’è responsabilità. Ma adesso c’è il rischio che le due cose non marcino di pari passo. Responsabile della politica generale del governo, Conte potrebbe non essere lui il vero direttore d’orchestra. E allora si fortifichi con le pagine di Machiavelli e di Manzoni. Se non altro, si risparmierà l’onta di essere considerato nulla più che un re travicello.
Il premier ha un’agenda politica che lo impegnerà molto. Ma si ritagli uno spazio per leggere Il Principe
Nutrirà lo spirito e avrà una bussola per navigare nelle acque infide della politica