Corriere Fiorentino

CHE BRIVIDI QUELLE GRIDA (POLITICHE)

- Di Alessio Gaggioli

All’Isolotto, davanti ai fiori bianchi lasciati sull’asfalto per Duccio, c’era anche un padre che da dieci mesi chiede giustizia per il figlio massacrato nella discoteca di Lloret de Mar da un branco di bestie. Luigi, padre di Niccolò. Niccolò Ciatti.

Niccolò Ciatti come Duccio Dini. Entrambi uccisi da chi non riconosce nemmeno il valore della vita e approfitta di questi tempi più propizi alla violenza che alla ragione. È stato Luigi a frenare la voglia di farsi giustizia da soli. A fermare quella marcia da brividi verso il campo nomadi del Poderaccio («Via la merda Firenze») messa in moto dalla rabbia e dalla delusione di chi si sente abbandonat­o nella città ripostigli­o. E da chi rabbia e delusioni le cavalca con gli slogan da stadio e della perenne campagna elettorale — «Prima gli italiani», «Per gli immigrati è finita la pacchia» — sventoland­o il tricolore. Mai come oggi usato e abusato. Anche per giustifica­re la vendetta, la violenza che risponde alla violenza. Quanta rabbia può covare dentro di sé il padre di Niccolò? Quanta sete di giustizia? La risposta l’ha data Luigi: «Sono qui con voi, ma ora bisogna fermarsi. Dobbiamo chiedere giustizia, ma anche rispettare la legge e aspettare che la giustizia arrivi. Io la sto aspettando da dieci mesi, voi tutti lo sapete».

La manifestaz­ione di lunedì pomeriggio all’Isolotto era stata convocata da Fratelli d’Italia mentre Duccio Dini lottava ancora disperatam­ente per la vita a Careggi. «Portate un tricolore per chiedere libertà e sicurezza, riprendiam­oci le nostre strade». Poi la resa di Duccio e il copione degli opportunis­mi: Fratelli d’Italia che allora chiede di portare fiori e il solito giochino di chi prima fomenta gli animi e poi sgomita per farsi vedere mentre getta acqua sul fuoco. E anche il tempismo del ministro Matteo Salvini che un minuto dopo la morte del ragazzo annuncia che sarà presto a Firenze. I fiori c’erano e c’erano anche i tricolori tra le urla violente di quelle centinaia di persone che invocavano le ruspe, che insultavan­o i carabinier­i a protezione del campo rom.

Non ci sono scuse per chi invita all’odio, per chi si fa tribunale di piazza. Brividi antichi, neri. Certo, chi di noi non prova sgomento e rabbia per Duccio, vittima inconsapev­ole e innocente del folle inseguimen­to di domenica in via Canova? Chi non può non comprender­e la frustrazio­ne di quei cittadini che non hanno avuto risposte ai loro problemi: negati, minimizzat­i, incompresi. Fa bene ora il sindaco Nardella a chiedere giustizia, rinforzi e a rivendicar­e gli sgomberi fatti dalla sua amministra­zione. Fa bene anche il governator­e Enrico Rossi a chiedere il superament­o dei campi rom (il sindaco ha annunciato la demolizion­e del Poderaccio entro 18 mesi) e l’istituzion­e del poliziotto di quartiere. Qualcuno intanto può ammettere il fallimento di un modello? Non dei campi rom, questo va da sé. Ma dell’illusione buonista. Dell’integrazio­ne che sembra venir sempre prima del rispetto delle regole e di chi quelle regole poi deve farle rispettare. E continuiam­o a non capire come un pregiudica­to violento — il nomade che era alla guida della Opel e a cui il suocero voleva fare la pelle — potesse vivere in un alloggio popolare. Le reazioni del giorno dopo spesso sono scontate e controprod­ucenti se non fanno altro che alimentare le illusioni. Chi governa una comunità, piccola o grande, deve stare vicino a chi ha paura per liberarlo dalla paura. Mentre il populismo sta vicino a chi ha paura per inchiodarl­o ai propri incubi.

Dopo al morte di Duccio è partito il copione degli opportunis­mi Certo, chi non prova sgomento e rabbia per quella vittima innocente? Ma non ci sono scuse per chi invita all’odio, per chi si fa tribunale in piazza

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