Corriere Fiorentino

IL PARTITO, UNA CASA RIMASTA SENZA POPOLO

SUCCESSI E TRAMONTO DELLA REGIONE ROSSA

- di Franco Camarlingh­i

«Ei fu. Siccome immobile,/dato il mortal sospiro,/stette la spoglia immemore/orba di tanto spiro,/così percossa, attonita/la terra al nunzio sta». I versi di Alessandro Manzoni per Napoleone mi sono venuti in mente quando un notiziario notturno ha dato i risultati definitivi dei ballottagg­i a Pisa, Massa e Siena.

Si parva licet componere magnis, dopo la definitiva sconfitta del Pd a Siena, la spoglia di quella che fu la Toscana rossa giaceva di fronte ai nostri occhi. Magari la terra non sarà così percossa e attonita, ma la caduta precipitos­a di una primazia, durata tanti decenni, non può non suscitare sorpresa e perfino sconcerto.

Che cosa fu la Toscana rossa nel ricordo di chi ha vissuto tanta parte della propria vita in una regione nella quale l’idea di un’alternativ­a era sembrata quasi impossibil­e? Conviene andare a ritroso nel tempo, quando in Toscana l’egemonia del Pci aveva la sua massima contraddiz­ione a Firenze che, dopo l’iniziale esperienza di Mario Fabiani, era stabilment­e passata a governi guidati dalla Dc. Chi si accostava alla politica e diventava militante o dirigente del partito di Gramsci, Togliatti e via di seguito, viveva, a Firenze, nel riflesso di un predominio che si arrestava alle porte della capitale della regione, ma che ugualmente ne rivelava gli elementi di fondo. Quando nel finire degli anni sessanta fu inaugurata la nuova sede del Pci in via Alamanni, la sensazione di una forza che in poco tempo sarebbe diventata capace di conquistar­e Firenze, divenne chiara anche agli occhi degli avversari più accaniti. La macchina organizzat­iva dei comunisti era impression­ante: in via Alamanni c’era un quartier generale con decine di funzionari che si occupavano dall’ago al cannone, in grado di assicurare un contatto permanente con ogni categoria sociale. Ed era solo una struttura centrale, poiché se ci si allontanav­a dalla città, in ogni comune della provincia tutto ciò si ripeteva e si amplificav­a, in realtà di governo, di sindaci che rispondeva­no a tutto e a tutti, con indennità ridicole e senza alcuna assicurazi­one, ma capaci di percentual­i di consenso da Guinness dei primati.

Se poi si percorreva la Toscana nel suo insieme, a parte alcune situazioni, come quella di Lucca, nelle città importanti e in quelle minori si in- altrettant­e fortezze organizzat­ive dei comunisti. Ma la sinistra non era solo fatta dal Pci: i socialisti avevano una presenza radicata e spesso determinan­te, mentre ogni cosa che apparisse a sinistra acquistava un ruolo più o meno di rilievo.

Non era solo la struttura di un partito a rendere particolar­e e quasi unico il modello politico della Toscana: fino dall’inizio la preoccupaz­ione della sinistra era stata quella di creare ovunque luoghi di incontro e di aggregazio­ne, le famose case del popolo. Vi si realizzava un incontro fra classi sociali, dirigenti di partito e intellettu­ali che oggi sembrerebb­e incredibil­e. Non è qui che si intende giudicare le proposte politiche o le ideologie che attraverso tutto ciò venivano diffuse, di certo si trattava di luoghi di scambio che in un modo o nell’altro consentiva­no una tenuta e una solidariet­à sociali oggi inimmagina­bili. Mi in mente un ciclo di conferenze su Gramsci di Eugenio Garin nella mitica casa del popolo del Madonnone, a Firenze. Una folla di operai e di artigiani, fianco a fianco di giovani e meno giovani procontrav­ano fessori universita­ri, che ascoltavan­o religiosam­ente l’illustre studioso, mentre spiegava l’opera del fondatore del Pci; tributando­gli alla fine applausi entusiasti­ci, come se avessero assistito a un comizio di Terracini o di Togliatti. Già, perché questa era una caratteris­tica della Toscana rossa, prima che diventasse soprattutt­o un sistema di potere: la consideraz­ione del ruolo degli intellettu­ali, della loro funzione, anche quando magari se ne intendevan­o i ragionamen­ti per quanto possibile. Non c’era Comune della regione dove questo non succedesse e dove non avesse ragione di essere la famosa battuta di Benigni in Berlinguer ti voglio bene: «E ora compagni, passiamo dal riviene creativo al culturale», o viceversa.

Naturalmen­te il rapporto diretto con gli elettori passava in maniera determinan­te attraverso la vita delle sezioni (ce n’era una ogni frazione di quartiere o di paese) e l’infinita serie di comizi che non conoscevan­o soste. Si andava da quelli importanti, a cui partecipav­ano i leader nazionali, a quelli nei posti più sperduti dove capitava spesso di parlare a spettatori che si affacciava­no alle finestre di casa. Sempre andando sul filo memoria, viene il ricordo di Berlinguer in piazza della Signoria nella metà degli anni Settanta, in vista del voto che avrebbe portato il Pci alla conquista delle città più importanti e fra queste Firenze. Si trattava di un vero e proprio rito, di fronte a folle che erano assolutame­nte d’accordo su tutto, dove si decideva la stessa gerarchia dei dirigenti locali: chi era sul palco più o meno vicino al segretario e chi non c’era. Si può guardare con ironia o con spirito critico a quel tempo, ma di certo c’era una compattezz­a sociale che pur fra tante contraddiz­ioni e idee sbagliate, lasciava pochi varchi al populismo oggi imperante. Era comunque una Toscana che in gran parte si identifica­va con la sinistra e con una sua parte, che aveva bisogno certo di riti già allora anacronist­ici, ma che in fondo manteneva un’ambizione largamente diffusa ad una solidariet­à e ad una partecipaz­ione consapevol­i.

Poi, anche in seguito all’avvento della Regione, tutto iniziò a spostarsi in una direzione di gestione del potere, nel convincime­nto che la continuità di questo non fosse contendibi­le. Tornado al Manzoni e guardando al passato, con spirito «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio», possiamo dire che la vecchia Toscana rossa, in fondo un po’ romantica, fatta di organizzaz­ione e di volontaria­to politico, si è trasformat­a via via in un fortino di interessi e di istituzion­i sempre più assediati, le cui mura hanno cominciato a crollare, come ha dimostrato il voto di domenica.

Il modello toscano La preoccupaz­ione della sinistra fu quella di creare ovunque luoghi di incontro tra classi sociali, dirigenti di partito e intellettu­ali

Il lento crollo

Poi tutto iniziò a divenire gestione del potere, nel convincime­nto che il dominio politico sulla regione non fosse contendibi­le

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Il comizio finale della Festa nazionale dell’Unità del 1975 alle Cascine: migliaia di persone ad ascoltare il segretario del Pci Enrico Berlinguer

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