«Siamo come una famiglia, ora perderemo anche questo»
IL RACCONTO DELL’OPERAIO
Quel venerdì mattina Gianni capisce subito che qualcosa non quadra. La visita a Figline di Yvan Lippens, vice presidente di Bekaert Europa, non è una novità, di solito è l’occasione per fare il punto sulla fabbrica. Ma quella mattina del 22 giugno, alle 8,30, «Lippens era arrivato con due guardie del corpo e c’era uno strano silenzio, facce tirate, quasi da funerale». Gli emissari dal Belgio iniziano a parlare in inglese, mentre una interprete traduce in italiano per i sindacalisti e i delegati sindacali come Gianni Tarchi, Rsu di Fiom, che si trova nella sala riunioni in rappresentanza di 318 colleghi.
«Ci hanno liquidati in dieci minuti, sono bastate quattro slide e poche parole. La cosa che non mi tolgo dalla mente è l’espressione di quella povera ragazza che faceva da inter- prete e non sapeva come dirci che chiudevano la fabbrica». Gianni esce dalla stanza, va in fabbrica dai colleghi, ha il compito del medico che deve avvisare i famigliari che il loro congiunto è morto: «Ma qualcuno rideva, pensava che stessimo scherzando. Poi, abbiamo fermato le macchine, siamo usciti fuori nel piazzale e quel momento sono cominciate ad arrivare le mogli, i figli, i parenti, con le facce sbarrate e in mano le lettere di licenziamento…».
Quei momenti Gianni li ha ricordati anche venerdì sera, quando è salito sul palco di piazza Marsilio Ficino, alla manifestazione in cui tutta Figline si è stretta attorno ai 318 lavoratori di Bekaert. «Forza Gianni, dai Giannino», erano gli incitamenti dei colleghi, quando l’emozione era troppo forte per riuscire a proseguire il racconto. Eppure era rimasto calmo la mattina dell’annuncio: «Di fronte a una notizia così assurda, c’è chi piange, chi si arrabbia, per me la situazione era talmente surreale che non avevo reazioni».
Quarantanove anni, originario di Levane, ha iniziato a lavorare a 15 anni da un artigiano tagliatore di scarpe, poi in un’azienda, quindi ha fatto l’operaio edile in una ditta stradale. Così, a 30 anni, quando viene assunto alla Pirelli (l’attuale Bekaert era ancora di proprietà italiana), sa di aver raggiunto qualcosa di importante nella vita: «Non erano più i tempi in cui si veniva assunti alla Pirelli e la fain organizzava il cenone per festeggiare il posto sicuro fino alla pensione, i segnali di crisi c’erano già. Ma era comunque uno dei posti più ambiti in Valdarno, per me era un grande risultato». Ora Gianni vive a Terranuova Bracciolini, è sposato, ha due figlie di 16 e 11 anni: «Mia moglie? Lavora in un’azienda metalmeccanica. No, non nell’indotto della Bekaert — ride — Almeno lei, per fortuna».
Subito però torna serio, la rabbia riesplode: «Quando Bekaert ci ha comprato, ci ha commissionato un nuovo tipo di steelcord che da anni in Belgio tentavano di fare senza riuscirci, un modello più leggero ma più resistente. E noi in otto mesi l’abbiamo pensato, progettato, creato, industrializzato. Poi sono venuti a dirci che i costi di Figline erano troppo alti — racconta — E anche quel venerdì mattina, sono venuti con le loro guardie del corpo e sono scappati via subito. Noi operai invece con senso di responsabilità abbiamo messo in sicurezza le macchine prima di iniziare lo sciopero. Perché lavoriamo il piombo, gli acidi, sostanze pericolose. E non basta un pulsante per fermare le macchine. E loro scappavano...».
Agli operai di Bekaert una delle cose che fa più male è l’essere andati in Romania, in Slovacchia, in Cina a insegnare il mestiere ai colleghi degli altri stabilimenti del gruppo, per poi essere licenziati perché non competitivi. «Ma nessuno di noi ce l’ha con i nostri colleghi stranieri — spiega Gianni — Se un operaio in Romania guadagna una paga da fame non è colpa sua, questo dumping salariale è colpa dei padroni e dell’Europa. L’operaio rumeno sarebbe il primo a essere contento se guadagnasse di più». La solidarietà tra colleghi non manca mai, è la cosa più importante. Gianni l’ha ribadito sul palco di piazza Marsilio Ficino: la paura più grande, dopo il 4 settembre, è perdere le persone con cui hai passato gran parte della vita. «Non stiamo assieme dalle otto alle cinque e arrivederci. Qui si lavora a ciclo continuo, qui con i colleghi ci fai le notti, ci passi le feste, Pasqua e Natale. Sono la tua famiglia. E dal 5 settembre, se non cambia qualcosa, ognuno andrà per la sua strada».
Il 22 giugno Liquidati in dieci minuti, l’interprete tremava In fabbrica pensavano a uno scherzo, poi sono arrivate le mogli con le lettere di licenziamento