Corriere Fiorentino

DON MILANI, MEMORIA SENZA MACCHIE

- di Mario Lancisi

Ivangeli ci raccontano un Gesù che assolve l’adultera (erano già pronte le pietre dei lapidatori) e si ferma a parlare con il ricco Zaccheo. Tenero e accoglient­e con tutti. Salvo quando entrano in ballo i piccoli.

Allora il suo linguaggio diventa duro, quasi violento: a chi li scandalizz­a e ne abusa è meglio che «gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare», è l’invettiva di Gesù. Anche se i biblisti più avvertiti fanno riferiment­o ai piccoli di fede, nella tradizione cristiana il passo evangelico è evocato come condanna senza indulgenza per la pedofilia. Nel Vangelo sembra esserci per tutti un’uscita di sicurezza, non per i pedofili. Ciò ci aiuta forse a capire quanto esecrabile debba essere la condanna di Rodolfo Fiesoli e degli atroci abusi perpetrati al Forteto in nome di Dio, facendosi scudo della fede cristiana e millantand­o legami culturali e religiosi con buona parte del mondo cattolico e della sinistra fiorentina. E nel frullatore delle illazioni uno dei nomi più gettonati è stato e continua ad essere quello di don Lorenzo Milani. In molti hanno accostato, tra questi, ad esempio, l’informato e autorevole vaticanist­a dell’Espresso Sandro Magister, i «cattivi scolari di don Milani alla storia degli abusi del Forteto». L’invocazion­e della severità della pena — la metafora evangelica della macina da mulino — per Fiesoli e gli altri condannati del Forteto, nonché di quanti erano chiamati a controllar­e e non lo hanno fatto, non può trasformar­e questa dolorosa e drammatica vicenda in un ventilator­e di facili illazioni, di sinistri teoremi e di accostamen­ti di nomi e storie innocenti. Si prenda don Milani, appunto. È vero che Barbiana e il Forteto distano una manciata di chilometri, si trovano nello stesso Comune, Vicchio, ma quando la cooperativ­a di Fiesoli approda a Barberino di Mugello (per poi trasferirs­i dove si trova oggi) era l’agosto del 1977. Don Lorenzo era già morto da dieci anni, 26 giugno 1967. Nessun contatto c’è mai stato don Milani e Fiesoli. Né a Barbiana e né a Calenzano, dove il sacerdote ha operato da cappellano dal 1947 al 1954. E nel ricco epistolari­o milaniano, pubblicato nell’opera omnia dei Meridiani della Mondadori, mai compare il nome di Fiesoli. D’altra parte tutta la storia del Forteto — di Fiesoli , denominato «il profeta» e di Luigi Goffredi, l’ideologo — nasce a Prato tra la fine degli anni sessanta e la prima metà dei settanta. Nasce come una comune di giovani nel segno dell’utopia sessantott­ina, in cui certamente un punto di riferiment­o era anche don Milani e la sua Lettera a una professore­ssa. Di questa comune fece parte anche Edoardo Martinelli, un giovane ex allievo del priore, che poi entrò in collusione con Fiesoli e diventerà uno dei suoi grandi accusatori. Anche altri ex allievi hanno sicurament­e avuto rapporti con il Forteto ma da qui a definirli «cattivi scolari» del priore il passo è lungo e immotivato. E comunque sia, nel maggio del 1967, un mese prima della morte, don Milani chiuse la sua scuola e andò a morire a casa della mamma, in via Masaccio 218, per essere meglio assistito dai medici di Careggi. Chiese che fossero bruciate tutte le carte. Come a dire ai suoi ragazzi che da quel momento avrebbero dovuto camminare con le loro gambe perché, scrisse, «il fine ultimo di ogni scuola è quello di tirar su dei figlioli più grandi di lei» e che un maestro deve essere «felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle». Macchiare la storia del priore e della sua scuola con false illazioni è, a ben riflettere, l’ennesimo frutto amaro del Forteto e del suo cattivo profeta.

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