DON MILANI, MEMORIA SENZA MACCHIE
Ivangeli ci raccontano un Gesù che assolve l’adultera (erano già pronte le pietre dei lapidatori) e si ferma a parlare con il ricco Zaccheo. Tenero e accogliente con tutti. Salvo quando entrano in ballo i piccoli.
Allora il suo linguaggio diventa duro, quasi violento: a chi li scandalizza e ne abusa è meglio che «gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare», è l’invettiva di Gesù. Anche se i biblisti più avvertiti fanno riferimento ai piccoli di fede, nella tradizione cristiana il passo evangelico è evocato come condanna senza indulgenza per la pedofilia. Nel Vangelo sembra esserci per tutti un’uscita di sicurezza, non per i pedofili. Ciò ci aiuta forse a capire quanto esecrabile debba essere la condanna di Rodolfo Fiesoli e degli atroci abusi perpetrati al Forteto in nome di Dio, facendosi scudo della fede cristiana e millantando legami culturali e religiosi con buona parte del mondo cattolico e della sinistra fiorentina. E nel frullatore delle illazioni uno dei nomi più gettonati è stato e continua ad essere quello di don Lorenzo Milani. In molti hanno accostato, tra questi, ad esempio, l’informato e autorevole vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, i «cattivi scolari di don Milani alla storia degli abusi del Forteto». L’invocazione della severità della pena — la metafora evangelica della macina da mulino — per Fiesoli e gli altri condannati del Forteto, nonché di quanti erano chiamati a controllare e non lo hanno fatto, non può trasformare questa dolorosa e drammatica vicenda in un ventilatore di facili illazioni, di sinistri teoremi e di accostamenti di nomi e storie innocenti. Si prenda don Milani, appunto. È vero che Barbiana e il Forteto distano una manciata di chilometri, si trovano nello stesso Comune, Vicchio, ma quando la cooperativa di Fiesoli approda a Barberino di Mugello (per poi trasferirsi dove si trova oggi) era l’agosto del 1977. Don Lorenzo era già morto da dieci anni, 26 giugno 1967. Nessun contatto c’è mai stato don Milani e Fiesoli. Né a Barbiana e né a Calenzano, dove il sacerdote ha operato da cappellano dal 1947 al 1954. E nel ricco epistolario milaniano, pubblicato nell’opera omnia dei Meridiani della Mondadori, mai compare il nome di Fiesoli. D’altra parte tutta la storia del Forteto — di Fiesoli , denominato «il profeta» e di Luigi Goffredi, l’ideologo — nasce a Prato tra la fine degli anni sessanta e la prima metà dei settanta. Nasce come una comune di giovani nel segno dell’utopia sessantottina, in cui certamente un punto di riferimento era anche don Milani e la sua Lettera a una professoressa. Di questa comune fece parte anche Edoardo Martinelli, un giovane ex allievo del priore, che poi entrò in collusione con Fiesoli e diventerà uno dei suoi grandi accusatori. Anche altri ex allievi hanno sicuramente avuto rapporti con il Forteto ma da qui a definirli «cattivi scolari» del priore il passo è lungo e immotivato. E comunque sia, nel maggio del 1967, un mese prima della morte, don Milani chiuse la sua scuola e andò a morire a casa della mamma, in via Masaccio 218, per essere meglio assistito dai medici di Careggi. Chiese che fossero bruciate tutte le carte. Come a dire ai suoi ragazzi che da quel momento avrebbero dovuto camminare con le loro gambe perché, scrisse, «il fine ultimo di ogni scuola è quello di tirar su dei figlioli più grandi di lei» e che un maestro deve essere «felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle». Macchiare la storia del priore e della sua scuola con false illazioni è, a ben riflettere, l’ennesimo frutto amaro del Forteto e del suo cattivo profeta.