Vita agra e opere di un irregolare nel libro della figlia
Luciano Bianciardi, la sua Toscana, Milano e la fine irreversibile di un mondo di illusioni A cura della figlia Luciana tutte le opere in un unico volume. Per riscoprire un autore sempre attuale
Il bibliobus girava per le campagne del grossetano dal 1951, raggiungendo luoghi lontani dagli scambi culturali, andando verso i paesi dei minatori, toccando posti che sembravano fuori dal tempo e dalla Storia. Luciano Bianciardi, dopo aver insegnato alle medie e al liceo classico di cui era stato allievo, divenne direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto, che aveva rilevato in condizioni disastrose, dopo i danni della guerra e l’alluvione del 1946. Aveva avuto una idea luminosa, destinata a trovare ampia circolazione fino all’attualità. Andando per borghi, nel momento in cui le comunità, arroccate per difendersi da pirati, malaria, pestilenze, invasioni, prendevano la via della pianura, seguendo gli insediamenti dei luoghi di lavoro, lo scrittore poteva esercitare il suo sguardo aguzzo, abile a cogliere il mutamento antropologico, radicale, che stava avvenendo, quando niente rimaneva più come prima. Con Carlo Cassola, che si era stabilito nella sua città, dette il via a numerose imprese culturali, ma anche entrò da subito nell’agone politico, partecipando al neonato Movimento di Unità Popolare. Insieme all’autore della Ragazza di Bube firmò un magnifico reportage dedicato a I minatori della Maremma, nato da infiniti percorsi su e giù per le colline metallifere, in quel paesaggio scabro crivellato da pozzi e buche, dove le condizioni di vita erano spesso proibitive. «A Ribolla il tracciato urbano non esiste affatto; case basse e scure, separate da sterrati nudi, in pendenza irregolare, qualche sporadico eucaliptus, che sparge intorno un’ombra effimera; se ne piantarono molti, un tempo, in Maremma, con la convinzione che servissero a prosciugare il terreno e a combattere le zanzare». Proprio in questa frazione di Roccastrada Bianciardi poté vedere lo sviluppo e il disastro del boom. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ci fu un au- della produzione, i minatori costruirono un cinema, una sala da ballo, una piscina, ma il 4 maggio 1954 accadde una tragedia immane. Una esplosione di gas grisù nella miniera di lignite, fece quarantatré vittime. Ai funerali parteciparono cinquantamila persone, la Montecatini, proprietaria dell’impresa, dette subito corso allo smantellamento della miniera. Nessuno venne condannato per il disastro, il giudice parlò di «mera fatalità»: oggi resta, in memoria di quella collettività cancellata, il Monumento al minatore di Vittorio Basaglia, mentre i resti dello stabilimento estrattivo fanno parte del Parco tecnologico e archeologico delle colline metallifere grossetane. Quell’evento per Bianciardi, che aveva stretto legami di amicizia con molti minatori, fu il segno della fine irreversire bile di un mondo. Abbandonò quindi Grosseto per recarsi a Milano, lavorando prima nella neonata casa editrice Feltrinelli, che cercava redattori, ma il lavoro redazionale di ufficio non faceva per lui. Il congedo, tutt’altro che semplice, dai riti della provincia, dalle discussioni sulle origini etrusche del luogo, lo racconta benissimo ne Il lavoro culturale (1957), dove Grosseto diventa Kansas City: «Una città tremendamente seria, ed io ci torno ogni volta con un po’ di magone e parecchio rimorso, d’esserne fuggito nottetempo senza domandare il permesso e portando via parecchia roba, quasi tutto quel che ho, come i ladri della colonia vetuloniese. I vecchi amici mi guardano negli occhi senza sorridere, e mi raccontano le novità». Quindi operò specialmente come traduttore, prima di approdamento al suo libro più noto, il magnifico La vita agra, uscito nel 1962 e portato sullo schermo nel 1964 da Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi, presenza d’eccezione, che pretese però per Bianciardi un profondo lavoro di rielaborazione del parlato toscano del protagonista (largamente autobiografico), che nella pellicola non proveniva più da Grosseto, ma da territori emiliani.
Oggi la raccolta di tutte le sue opere, Il cattivo profeta, è stata pubblicata da Il Saggiatore, a cura della figlia Luciana, con una prefazione di Matteo Marchesini, ed è una occasione preziosa per ritrovare una voce d’autore singolare, a metà tra la profezia apocalittica, e il legame, profondo, con i luoghi della giovinezza. Con la Toscana, infatti, rimase sempre in contatto, come dimostra il delizioso Pro Bocca di Magra, un inno satirico, intriso di nostalgia, in cui denunciava gli scempi edilizi. Tornava spesso al suo libro preferito, letto per la prima volta nell’infanzia, I Mille di Giuseppe Bandi, nativo di Gavorrano, epopea popolare garibaldina, che fu per lui fonte di ispirazione. Alla memoria dello scrittoresoldato è dedicato infatti La battaglia soda, uscito da Rizzoli nel 1964, in cui rivisita con un punto di vista personalissimo le vicende della guerra di indipendenza italiana, con un tono che unisce ironia e scrittura melodrammatica, con Garibaldi «il gran vecchio», che compare a cavallo all’assedio di Capua: «Vedete — mi disse con quella voce che innamorava — vogliono bombardare a tutti i costi e io me ne vado perché non ho cuore di assistere a tanto barbaro spettacolo. Nessuno deve avere diritto di chiamarmi bombardatore».
A quattro mani Insieme a Cassola firmò un magnifico reportage sui minatori della Maremma, nato da infiniti percorsi su e giù per le colline metallifere