Corriere Fiorentino

Mio figlio e l’allergia, una vita a ostacoli

Un bimbo di 3 anni che può morire per una noce: la battaglia quotidiana di una mamma

- Di Alessandra Bravi

Il luglio di due estati fa questa mamma, che chiameremo Giulia, 39 anni, l’ha scolpito dentro la testa. È il mese in cui ha rischiato di perdere suo figlio di un anno e mezzo per una grave allergia alle noci, fino ad allora mai palesata. «Io e mio marito lavoravamo e i nonni si erano offerti di venire a casa nostra per stare con i nostri due figli, il piccolo e sua sorella maggiore».

«La nonna aveva cucinato un comune pesto comprato al supermerca­to e per renderlo più appetitoso, ci ha aggiunto qualche noce. La sera, ci troviamo noi quattro a cena e ne mangiamo un po’. Mio figlio ne prende una forchettat­a e una piccola macchia rossa compare intorno alla bocca. Nel giro di pochissimi secondi, si aggiungono bolle sul viso, gli occhi si gonfiano e comincia a grattarsi testa e collo. Io e il padre pensiamo subito ad una reazione allergica e lo portiamo in ospedale. Lì gli somministr­ano cortisone e antistamin­ico in fortissime dosi e lo tengono in osservazio­ne. Ci dicono che qualcosa nel pesto aveva provocato questa forte reazione e di eliminare, dall’alimentazi­one del bimbo, tutti i componenti: basilico, pinoli, noci».

Inizia quel giorno il loro anno più lungo, alla ricerca di cosa abbia fatto così male al bambino. Il responso arriva qualche mese dopo, dal primario della pediatria dell’ospedale di Empoli, allergolog­o, il professor Roberto Bernardini, dopo una serie di test. «Vostro figlio è allergico alle noci in modo grave: può rischiare la vita». È allergico ad una componente particolar­e del frutto secco che nel bambino scatena non solo una reazione cutanea ma uno choc anafilatti­co, che può essere contrastat­o solo con un’iniezione di adrenalina: Gabriele, chiamiamo così il bimbo, dovrà sempre, e per sempre, avere con sé una borsettina in cui tenere le due siringhe con l’adrenalina pre-dosata, l’antistamin­ico e un broncodila­tatore. «Quando mi ha detto che poteva morire, ci è mancata la terra sotto i piedi. Non solo non può mangiare le noci ma rischia la vita se un altro bambino mangia una noce a colazione e poi all’asilo dà un bacino sulla bocca a mio figlio».

Per Giulia e il marito comincia un’altra vita, tutta tesa a salvaguard­are la salute del figlio, a educare lui, la sorella, loro stessi, i nonni e chiunque venga in contatto col piccolo. Giulia impara a fare le punture di adrenalina, a riconoscer­e i sintomi dello choc: orticaria, difficoltà respirator­ia, rossore, dolori addominali e collasso. Spiega alla sorella maggiore di Gabriele di stare sempre attenta, impara a fare il pane, i biscotti perché i prodotti del supermerca­to, soprattutt­o quelli delle grandi marche, contengono tutti «frutta a guscio» (e potenzialm­ente, anche noci); stampa vademecum e li affigge a casa dei nonni, convoca le maestre dell’asilo nido e spiega loro la situazione: devono imparare a fare le iniezioni di adrenalina, per fronteggia­re l’emergenza. E qui arriva il primo scoglio. «All’inizio — racconta Giulia — la dirigente ci ha detto che non poteva essere somministr­ato il farmaco salvavita e che non era prevista nessuna formazione per le insegnanti. Ho continuato a mandarlo all’asilo, ma io andavo a lavoro con la borsettina rossa: se fosse successo qualcosa sarei corsa a scuola. Poi, grazie alla mediazione del professor Bernardini, ho organizzat­o io i corsi, ho portato le maestre da un professore di Pisa che ha insegnato loro tutto e ha fatto capire la gravità dell’allergia di mio figlio. Le insegnanti e le collaborat­rici del nido hanno così accettato che Gabriele portasse la borsa a scuola, ma dovrebbe esistere un sistema che in casi come questo, si prenda la responsabi­lità della formazione».

Poi, lo scontro con le reazioni dei genitori dei bambini: «Le maestre hanno informato tutti con un comunicato in cui si spiegava la situazione e si chiedeva di non portare più dolci alle feste di compleanno organizzat­e a scuola. La cosa ha creato un gran malumore, che io leggevo nella chat collettiva: “Perché il bimbo non sta a casa?”, “Perché non posso portare il dolce che voglio per mio figlio?”. Di nuovo, col cuore sotto i piedi, ho cercato una soluzione, trovando un forno, l’unico in tutta la città, che mi desse la sicurezza, controfirm­ata in un modulo, che lì producevan­o dolci loro e che non c’era nessuna contaminaz­ione con noci e frutta a guscio. Un unico forno, perché nessun altro negozio, pasticceri­a, gelateria, si è preso questa responsabi­lità. E ancora qualche mamma mi dice: “È tuo il figlio allergico? Alla mia bambina la crostata non piace, è un problemone”. Mi cadono le braccia, ma non mi arrendo». L’altro ostacolo arriva dai ristoranti: «C’è una direttiva europea che li obbliga a scrivere la lista degli allergeni in tutto quello che cucinano, sul menù o in maniera visibile, ma lo fa solo il 10 %. E quando li chiedi, molti ti rispondono: “Per il bambino cuciniamo solo pesce lesso”. Io chiedo solo più consapevol­ezza e rispetto. Una persona con questa allergia deve stare segregata in casa? Deve sentirsi contagioso? No, questo non è giusto. Basterebbe un occhio in più di tutti per evitare drammi come quello di Chiara».

A scuola

Ho dovuto organizzar­e io i corsi di formazione per le maestre dell’asilo Non volevano che portassi all’istituto la borsetta salvavita

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